L’ex leader dei 24 Grana si è lanciato in un tour per celebrare i venti anni di carriera e ad ottobre uscirà il suo terzo disco da solista
Francesco Di Bella, dopo i 24 Grana, non si è mica fermato. Francesco Di Bella & Ballads cafè nel 2013 e Nuova Gianturco nel 2016 sono dischi che lo hanno confermato anche in veste di solista come uno degli artisti più talentuosi in circolazione. Ad ottobre uscirà il suo terzo album, di cui ci anticipa qualcosa. Noi lo abbiamo incontrato a Largo Venue in occasione del tour celebrativo dei suoi venti anni di carriera, durante il quale ha potuto “riprendere le fila di tutti i discorsi iniziati” e avvicinarsi a quello del disco di prossima uscita.
Come è nato questo tour celebrativo dei venti anni di carriera? È stata un’occasione per rileggere alcune cose del passato diversamente? Ci sono cose che cambieresti, altre che non cambieresti mai?
“L’idea di fare questo tour è iniziata un po’ per caso, io neanche ci avevo pensato, però me lo hanno proposto e mi sono detto che una cosa così bella andava fatta, sapevo che c’era gente che mi aspettava e che tutto sommato aveva voglia di ritrovarsi, sorridersi, ascoltare e darsi appuntamento a tra un po’ per le cose nuove.
Per quanto riguarda il guardarsi alle spalle e il guardarsi indietro, la musica mi ha regalato solo gioie: ad esempio coi 24 Grana sono stati degli anni bellissimi e incredibili e si è fatta la storia della musica alternativa della nostra città (e non solo n.d.r.). Anche con la band che ho messo su in seguito, questa band che ormai mi accompagna da un po’ di anni e che è nata in una notte di inverno, sotto una famosa nevicata romana di qualche anno fa all’Angelo Mai, sta effettivamente nascendo qualcosa dal punto di vista del sound e questo mi ha portato a decidere di fare il disco nuovo”.
A proposito del disco, ci puoi anticipare qualcosa, qual è il tema su cui ti sei concentrato maggiormente?
“Sì, non voglio spoilerare troppo ora, però è un disco di rottura col passato. Mi è sempre piaciuto in qualche modo cambiare le carte in tavola. Lo facevo all’epoca dei 24 Grana e lo faccio adesso, perché i dischi sono un po’ come i libri, scegli un tema, ma il tema non è soltanto il concept a cui fanno capo le liriche, è anche il modo in cui giochi con i suoni e costruisci il sound. Per questo disco ci siamo messi a lavorare in team con Andrea Pesce e col resto della band che mi accompagna dal vivo. Le canzoni sono nate dall’esigenza di dire qualcosa e infatti nel giro di poche settimane erano già pronte. Sono venuto qui a Roma, a casa di Andrea, a registrare dei demo e tutto ha iniziato a scorrere abbastanza velocemente, sia nelle fase di pre-produzione che in quella di produzione. Dal punto di vista narrativo i brani ruotano attorno ad un elemento centrale e a delle coordinate di base”.
Suonare dal vivo ti aiuta a far scorrere meglio tutta questa energia per il disco?
“Assolutamente. Ci siamo trovati poi a passare dallo studio al tour in maniera anche un po’ pazzerella, ma è stato bellissimo riprendere dal vivo dopo circa cinque mesi, è stato come se il tempo non fosse mai passato”.
Cosa significa lavorare da solista, pur sempre accompagnato da un gruppo, dopo aver segnato in maniera importante la storia della musica con i 24 Grana?
“I dischi con i 24 Grana sono stati qualcosa di molto molto importante ed è stato bellissimo lavorare con loro, perché sono sempre stati in grado, dal punto di vista creativo, di rispondere con intelligenza e sensibilità a quello che io cercavo di tirare fuori dai miei versi, dalle mie idee musicali. Poi arriva un momento in cui artisticamente vuoi crescere e pensi di poter dare di più, mentre dopo quasi venti anni insieme c’è il rischio di cadere in qualche cliché. Io ho sempre voluto esplorare anche me stesso e quindi l’idea di cambiare e di scavare nel mio potenziale creativo mi ha rimesso in strada, portandomi a rifondare le mie stesse convinzioni. Fare il solista non è nient’altro che ricominciare a cercare e investigare quali possono essere le proprie possibilità di crescita. È questa la mia dimensione: una nuova ricerca interpretativa ed espressiva, anche in relazione a come costruire poi lo spettacolo, per far arrivare al pubblico ciò che sto facendo. Quello che io mi porto dietro, anche dal vivo, è una tradizione musicale, costituita da un Dna artistico che proviene non solo dalla musica leggera italiana e dai miei gusti, ma anche, per esempio, dalla tradizione popolare della musica in Campania”.
Tra l’altro in Nuova Gianturco avevi riproposto “Brigante se more” dei Musicanova.
“Sì, anche per questo discorso e perché oggi, come negli anni ’90, nella scena musicale napoletana c’è una forte passionalità sudista. La mia non è un’idea neoborbonica, tant’è che nella mia versione di “Brigante se more” ho cambiato il verso contro i Piemontesi, però mi piace riproporla con Dario Sansone dei Foja e Claudio Gnut, perché come negli anni ’90 a Napoli c’erano 24 Grana, Almamegretta e 99 Posse, oggi ci sono appunto i Foja, Gnut, La Maschera e quel brano rappresenta questa forte spinta e passione sudista”.
E tra l’altro è molto attuale anche il discorso dell’attaccamento alla propria terra. Nel 2013 ho partecipato a Napoli al Fiume in piena, la manifestazione contro il biocidio in Campania, e quando ho ascoltato la tua versione di “Brigante se more” ho subito ricollegato quei versi a problematiche molto vicine a noi, come lo è appunto quella della Terra dei fuochi…
“È un brano che ha un potere evocativo molto forte. Io penso che le canzoni siano anche documenti. La canzone folk in particolare ha il diritto di essere riattualizzata, quindi se puoi, devi cambiare qualcosa, permettendo ai più giovani di avvicinarcisi, cosa successa anche quando con i 24 Grana riproponemmo “Lu cardillo”, che è una canzone dell’Ottocento. Ci sono ragazzi che dagli anni ’90 ad oggi la cantano come se fosse un pezzo scritto ieri e questa, dal mio punto di vista, è una cosa molto importante”.
Per quello che ho potuto ascoltare e osservare da Roma, mi sembra che la musica che nasce a Napoli si distingua anche da questo punto di vista, ossia ci vedo un maggiore attaccamento a tematiche territoriali che poi vengono riattualizzate.
“Pensa per esempio ad un Salvini che viene al Sud a raccattare voti e a fare il gioco sporco con i peggiori mezzi possibili. È normale che ti viene da cantare “Brigante se more”, anche attraverso una canzone si racconta un sentimento popolare”.
Restiamo a Napoli. Il tuo ultimo disco, “Nuova Gianturco”, parlava molto della città partenopea e anche se non ci vivi più, qual è il tuo rapporto con lei? Scriverne può essere un modo per comprenderla? Ne canterai ancora?
“Sicuramente ne scriverò e canterò ancora. Mi piace guardarla con le spalle rivolte al mare per non lasciarmi incantare dal suo paesaggio. Mi piace raccontare soprattutto la periferia e quella parte della città in cui la gente non ha tempo di specchiarsi nella sua bellezza, ma ha la necessità di rimboccarsi le maniche e cercare di ricucire un tessuto sociale profondamente lacerato da anni e anni di disordine e di disgregazione sociale. Gianturco è un quartiere alla periferia est di Napoli e mi ha colpito pur non essendo il mio quartiere di origine. Ci sono arrivato attraverso cortei e manifestazioni, con Officina 99, a colorarlo, a fare cultura e ad esprimere le mie idee. È stata la prima periferia che ho visto sorridere e lì ho visto una rinascita della mia città, non a partire dai quartieri del centro o dal litorale di Mergellina, ma tra le baracche e le fabbriche in dismissione. Io vedo una rinascita dell’umanità laddove ci sono associazioni, laddove c’è chi fa rete. Nuova Gianturco nasce da lì”.
Tu hai collaborato con 99 Posse, Foja, Gnut, quindi immagino che li ascolti anche molto, ma oltre a loro c’è qualcuno dell’attuale scena musicale nazionale che ascolti e con cui ti piacerebbe collaborare?
“Io mi tengo sempre molto aggiornato e in contatto con i colleghi, ho forti legami con la scena romana, a partire da Riccardo Sinigallia e Filippo Gatti, ma poi anche Motta, Zen Circus, Le Luci della Centrale Elettrica. La musica italiana è davvero ricca e penso che il modo migliore per seguire tutto questo fermento sia andare ai concerti. C’è un’età, dai venti ai trenta, trentacinque anni, in cui si dovrebbe andare sempre in giro per concerti a nutrirsi l’anima di musica. Dopo magari ti restano i dischi, i file mp3, ma quello che provi ad un concerto è impagabile”.
Sono assolutamente d’accordo, dal vivo si vede anche l’autenticità e l’energia dell’artista o del gruppo, no?
“Io ho fatto tanti dischi, ma penso che per capire quello che faccio sia necessario vedere un live. Si prova una sensazione completamente diversa e a volte più è strana e scarna la situazione in cui ti godi un artista e più è magica.
Credici nella musica italiana, se mi tiene in piedi da vent’anni non è perché io sia bravo, ma perché è questa che è bella. C’è tanta bella gente in giro che suona, che butta il sangue, che dà l’anima e che si è fatta una bella gavetta, penso allo stesso Motta o anche a Brunori, tutta gente che quel po’ di popolarità e comodità nel registrare i dischi e nell’andare in tour se l’è guadagnata”.
E nel nuovo disco ci sarà qualche collaborazione?
“Guarda, c’è stata una bulimia di collaborazioni nel precedente, qua ci siamo chiusi a casa di Andrea e nonostante ci siano venuti a trovare un sacco di amici, i microfoni non li abbiamo ancora aperti a nessuno”.
Con quali parole riassumeresti la tua carriera dagli inizi ad ora?
“Io sono sempre un felicione, un ottimista, quindi ti dico che è tutto una magnifica esperienza. Abbiamo iniziato a suonare nei garage con gli amici, poi i primi palchi, i tanti sogni. Qualche settimana fa sono tornato a suonare a Londra e mi sono ricordato di quando al liceo sognavo di suonarci, mentre l’insegnante mi rimproverava la mia distrazione.
Ci vuole la costanza, dopo tanti anni, per continuare a fare le prove, per mettersi in giro, per cambiare le corde alla chitarra, e per continuare a fare tutto questo alla mia età, con una famiglia e tutto il resto”.