– di Martina Rossato –
Venerdì scorso è uscito Blu, un nuovo capitolo per il progetto viscerale, sincero e stratificato di influenze di Francesco Nava.
Francesco nasce a Milano, ma percorre varie strade che lo portano a viaggiare alla ricerca del suo posto nel mondo. Ognuno di questi viaggi gli regala qualcosa, ogni esperienza lo segna a livello personale ed artistico. Proprio grazie a queste avventure conosce gli artisti che lo affiancano ora in questa avventura solista: Elisa Cavalazzi e Alessio Dal Checco.
Ho incontrato Francesco in occasione del concerto di venerdì scorso. In linea con la sua personalità eccentrica, il concerto si tiene presso Ayoga Studio di Milano ed è (inaspettatamente, almeno per me) preceduto da una pratica di yoga.
Poco prima del concerto, siamo riusciti a chiacchierare un po’ e mi hanno raccontato qualcuna delle loro avventure (e disavventure!).
Intanto, come mai l’idea di fare un concerto proprio qui?
Francesco | L’idea alla base di questo progetto è di portare la musica in luoghi dove solitamente non risiede. Oggi [15 marzo, nda] suoniamo in questa scuola di yoga, poi suoneremo in un Planetario a Ravenna e in una chiesa sconsacrata.
Elisa | In più, anche se nessuno di noi pratica yoga regolarmente, è un’attività molto meditativa, che si concilia bene con quello che facciamo.
Francesco | Sì, esatto. Nella mia testa c’era l’idea di sciogliere un po’ i corpi in modo che uno si senta più a suo agio durante il concerto. Facendo yoga si perdono anche alcune rigidità che abbiamo nella testa, vorrei che ognuno si sentisse libero di fare quello che vuole mentre suoniamo.
Alessio | Per come facciamo i nostri concerti, c’è una richiesta implicita rivolta ai nostri ascoltatori, che è quella di mettere in pratica un continuo scambio con noi. L’ultima volta che abbiamo fatto un concerto il pubblico si è seduto quando ci siamo seduti noi, ad esempio.
Suonate da sempre insieme?
F | È una cosa recentissima in realtà. La prima volta che abbiamo suonato insieme per questo progetto è stato a Lodi, è stato molto bello. Noi siamo tre amici che si sono incontrati in varie situazioni. Abbiamo condiviso alcuni viaggi ed esperienze per me molto importanti. Questo ci ha legati moltissimo, poi si aggiunge il fatto che Alessio ed Elisa sono musicisti straordinari. Questo insolito trio si è creato da sé.
E | Ci unisce anche l’amore per i suoni che viaggiano nello spazio, i suoi elettronici, il delay, i riverberi particolari.
Mi incuriosiscono questi viaggi!
F | Alessio ha studiato con me in Civica ma non ci eravamo mai parlati. Ero in viaggio con dei suoi amici e si è unito anche lui. Così abbiamo iniziato a suonare insieme mentre andavamo verso il nord, diciamo.
Invece con Elisa ci siamo conosciuti suonando insieme per un evento, dopo di che non ci siamo visti per due mesi. Mi ha ricontattato perché doveva suonare a un matrimonio in Germania, a Friburgo, e mi ha proposto di andare con lei. Allora siamo partiti per quest’avventura e sono stati giorni di pura follia.
Tra le varie pazzie che sono successe, abbiamo dormito in tenda nella Foresta Nera, almeno fino a quando siamo stati cacciati dalla polizia. Per fortuna abbiamo visto la luce fioca di una casetta in lontananza, siamo andati a chiedere ospitalità ancora vestiti in giacca e cravatta – quindi totalmente fuori luogo – e queste persone ci hanno ospitati. È nata così questa improbabile amicizia. E non mi metto neanche a parlare di quante cose senza senso abbiamo fatto io e Alessio [ride, nda].
È un trio decisamente inconsueto, siamo tre scappati di casa, mi sembra la strada giusta.
A livello di influenze musicali, a cosa ti ispiri?
F | Direi al mondo di Bon Iver, Sufjan Stevens, quell’indie folk con suoni organici ed elettronici. Ultimamente ascolto tanto Sigur Rós, un po’ di suoni selvaggi e nordici, che rimanda a grandi distese, grande bianco, quel mondo lì.
Hai detto di aver studiato in Civica, che percorso hai seguito?
F | Allora, ho sbandato tante volte. Ho iniziato studiando architettura, nel frattempo ho fatto un Erasmus alle Canarie e allo studio preferivo lo stare in spiaggia. Sono tornato e ho studiato canto jazz alla Civica, poi ho frequentato l’Officina Pasolini a Roma per fare cantautorato. Adesso credo di aver trovato un percorso chiaro per me stesso, almeno a livello musicale.
Nei testi ci sono spessissimo riferimenti ad elementi della Natura. Volevo chiedervi quale sia il vostro rapporto con la Natura, a maggior ragione ora che so che avete dormito in tenda nella Foresta Nera!
F | Non riesco a dire che rapporto ho con la Natura, la vedo proprio come un centro. Noi siamo Natura, anche se abbiamo perso un po’ la connessione e per questo spesso ci sentiamo sconnessi. Non voglio entrare in discorsi troppo ampi, ma l’uomo è un po’ l’eccezione nel mondo. Anziché essere in continuità con il processo naturale, ne è antagonista. Banalmente, l’economia precede tutto e l’uomo è al vertice di una piramide che si è costruito da solo. L’idea è di cercare con la musica di ritrovare un’armonia, per quanto instabile e fragile, forse addirittura impossibile da ristabilire del tutto. Sento di dovermi addentrare in quello, perché il centro sta lì.
Si capisce anche dall’estetica del tuo progetto, a partire da quella foto bellissima di te nel deserto.
F | Le foto solitamente me le fa Gaia Caramellino, una splendida artista. La foto di cui parli però me l’ha fatta un amico conosciuto in un viaggio in Marocco. Ero partito da solo e l’ho incontrato nel deserto, da lì è nata una bellissima amicizia.
C’è una connessione tra quello che fai e la tua immagine! A proposito di connessione, prima parlavate anche di connessione con il pubblico. Avete la tendenza a suonare in luoghi piccolini, pensate che il vostro live funzionerebbe anche in posti più grandi?
F | Siamo all’inizio, quindi è naturale che per ora si suoni in posti piccoli, ma non disdegnerò l’idea di fare un concerto in posti anche enormi, se mai ce ne dovesse essere l’occasione. Certo, noi cerchiamo di ricreare il nostro mondo, il nostro orizzonte, ed è fondamentale stare in contatto il più possibile con chi ci ascolta.
E | Anche come siamo sul palco – ogni tanto seduti, ogni tanto in piedi – è un modo per metterci a livello fisico alla stessa altezza del pubblico. Però la stessa intimità si può trovare anche a un concerto grande.