– di Assunta Urbano –
Era la primavera del 2019 e tra i tanti eventi live in giro per la Capitale si percepiva un particolare fermento per il concerto a Largo Venue del 16 aprile. Un solo nome come protagonista: Fulminacci.
Il giovanissimo – a volte definito anche “giovane vecchio” per la sua maturità –cantautore romano ha pubblicato il 9 aprile 2019 il suo disco d’esordio La vita veramente, in collaborazione con Maciste Dischi e Artist First, e solo una settimana dopo ha registrato un tutto esaurito al suo primo concerto in solitaria. L’apprezzamento verso questo lavoro diretto e sincero è arrivato non soltanto da amici e fan, quanto da colleghi, tra cui Motta.
Quindici giorni dopo il successo immediato, Fulminacci è salito sul palco del Primo Maggio portando con sé solo la chitarra, davanti a migliaia e migliaia di persone. Nella sua semplicità e con la sua esigenza di raccontare uno spaccato di vita quotidiana, quel momento è rimasto impresso nelle memorie dei presenti, ipnotizzati dalla performance. Da lì in poi ci siamo ritrovati sotto ad un acquazzone e non ha quasi più smesso di piovere. Un po’ metaforicamente, ma soprattutto letteralmente.
Nel frattempo, il percorso del cantautore ha toccato vette sempre più alte. Nell’estate scorsa ha meritatamente conquistato la Targa Tenco 2019 nella categoria di Migliore Opera Prima e il Premio Giovani Mei – ExitWell, in qualità di Miglior Giovane Indipendente dell’anno.
Uno dopo l’altro, si sono susseguiti poi i singoli San Giovanni, Le ruote, i motori!, Canguro, fino ad arrivare al più recente del 4 dicembre 2020, Un fatto tuo personale. Il tutto sempre senza perdere quell’esigenza emotiva e quella genuinità che l’hanno contraddistinto e reso unico.
Insomma, oggi la vita di cui cantava è veramente diventata un mestiere, grazie alla musica. Che succede se accade qualcosa del genere Semplicemente che da ascoltatori non potremmo ritenerci più fortunati.
A distanza di un anno e mezzo da quel Primo Maggio, chissà cosa faremmo per tornare indietro nel tempo. Nell’attesa, e nella speranza, di poterci preoccupare di nuovo di cose leggere come assistere ad un concerto sotto ad un temporale, abbiamo chiesto a Fulminacci di questo suo ultimo anno, del nuovo singolo e del suo scintillante futuro.
Il 16 aprile dello scorso anno hai presentato per la prima volta i tuoi brani dal vivo a Largo Venue, a Roma, ed è stato un grande successo non solo per il sold out, ma anche perché chi è venuto a sentirti conosceva ed apprezzava già i tuoi pezzi. Meno di quindici giorni dopo, sei salito sul palco del Primo Maggio cantando Borghese in borghese e accompagnandoti solo con la chitarra. Cosa hanno significato per il tuo percorso musicale queste esperienze? E come è stato, invece, il passaggio da questo tipo di realtà a quelle televisive in cui sei stato ospitato?
L’affetto che ho ricevuto fin dall’inizio è stato tantissimo, non me l’aspettavo. Quando mi sono accorto che oltre ai miei amici in prima fila c’erano anche tutte quelle altre persone che non conoscevo, ho visto con i miei occhi qual è il potere pratico della musica, un potere di aggregazione che produce energia positiva. Il passaggio da Largo Venue al palco del Primo Maggio a Roma è stato un meraviglioso trauma. Non ricordo molto bene cosa provassi, ero scioccato e incredulo ma il cuore mi batteva, perché stava succedendo una cosa bella. La televisione è tutta un’altra cosa, ci sono tempi molto stretti e scadenze costanti, ammiro molto chi lavora ogni giorno in quel settore. La tv rappresenta la scatola dei sogni di adulti e bambini e perché sia così è necessario il duro lavoro di chi ci sta dentro.
La vita veramente ha conquistato moltissimi ascoltatori. Dopo la sua pubblicazione, hai realizzato svariati singoli come San Giovanni e la più recente Canguro. Venerdì 4 dicembre, invece, è uscita Un fatto tuo personale. Di cosa parla questa canzone? E soprattutto, a chi è rivolta, qual è il “piedistallo” a cui ti riferisci?
Questo nuovo singolo parla di ciò che ho osservato negli ultimi due anni, di quello che ho capito grazie alle splendide conversazioni con le persone che ho incontrato. C’è un po’ di critica all’ipocrisia di chi si appropria di valori senza capire di cosa parla, remando persino contro i suoi stessi interessi, ma è anche un invito ad accogliere la paura dell’ignoto, che molto spesso cerchiamo di nascondere sotto strati di convinzioni accettate senza fare domande. Il piedistallo a cui mi riferisco è il posto dove mettiamo i tabù ogni volta che evitiamo di parlarne, ultimamente sto pensando che sarebbe utile demolire tutti i piedistalli che abbiamo costruito per poterci capire davvero. Mi viene in mente Voldemort, il cattivo di Harry Potter che tutti chiamano “tu sai chi” senza rendersi conto che la cosa lo rende sempre più forte. Alla fine lo sconfigge l’unico ragazzino che lo ha sempre chiamato per nome.
Hai collaborato in passato con i Canova per la cover del pezzo Stavo pensando a te di Fabri Fibra e con Mox in Fino a quando il cielo esiste. In questo caso, il tuo nome è affiancato a Frenetik&Orang3 per la produzione. Raccontaci di questo connubio.
Fin dalla fase di scrittura ho pensato alla collaborazione con Frenetik&Orang3, mi sembra che sia andata molto bene, sono davvero felice. Abbiamo lavorato con grande concentrazione ma senza mai dimenticare il divertimento, penso che siano riusciti a trovare non sono l’abito giusto per il pezzo ma che abbiano anche dato una direzione azzeccata al mio approccio espressivo. Mi piace molto lavorare al fianco di persone ogni volta diverse, è uno dei modi più divertenti per imparare e scoprire se stessi.
Più volte sei stato definito un artista “di rottura”, perché nel tuo modo di scrivere si percepiscono l’urgenza e l’esigenza di raccontare. Ti ci rivedi in questa visione? Anche Un fatto tuo personale, tra l’altro, prende il via proprio con la frase “scusate, ho bisogno di dire quello che penso”. Da dove nasce la necessità di esprimerti in prima persona e di descrivere il mondo che ti circonda?
Sono davvero contento di questa visione del mio lavoro, spero di mantenere questo desiderio il più a lungo possibile, senza la voglia di dire qualcosa non saprei come scrivere. Questa necessità potrebbe essere nata durante l’infanzia: ero un bambino che non ha mai avuto il coraggio di confrontarsi con i suoi coetanei, forse ho trattenuto per anni la voglia di dire delle cose e attraverso la musica mi è venuto più facile.
Oltre che dirompente, c’è anche chi ti ha definito un “giovane vecchio”. Tuttavia, le tue canzoni hanno attirato un pubblico vario, di età differenti, ed anche le nuove menti si sono sentite vicine ai tuoi pezzi. Ti senti una sorta di cantore, di rappresentante, della tua generazione?
C’è una cosa che mi piace molto ed è la varietà anagrafica del pubblico che ho incontrato. Penso che sia bellissimo parlare contemporaneamente con più generazioni diverse, ho sempre apprezzato i giovani che coinvolgono i genitori nella loro vita, permettendogli di conoscere il loro linguaggio invece di lasciarli decomporre per poi dare a loro dei rincoglioniti. Non ho mai capito come nascono linguaggi in codice, mi sembra che esistano solo per creare muri, per difendere i giovani dalla petulante saggezza dei vecchi o per confermare a chi appartiene a un gruppo l’esclusività della propria scelta.
A distanza di un anno e mezzo hai ancora tanto da dire e continui a farlo nel tuo modo personale, ma come cantavi in Una sera, oggi pensi che quella tua vita sia diventata un mestiere?
Per fortuna sì, è bellissimo lavorare facendo solo quello che mi piace, ma per questo è necessario farlo al meglio delle mie possibilità, tendo a non accontentarmi mai e ho ancora molto da imparare dal punto di vista tecnico.
Di certo da quel 1 marzo in cui hai fatto da opening act a Gazzelle fino ad oggi ne avrai di storie da raccontare. C’è un aneddoto, anzi, Un fatto tuo personale, che più di tutti descrive la tua vita legata alla musica?
Eravamo a Torino con la band, per il secondo live della mia vita, il concerto va abbastanza bene, ma a un certo punto salta la corrente. Ci ritroviamo in un locale buio senza amplificazione. Però avevamo una batteria e due chitarre acustiche, allora ci siamo messi a suonare con tutta la forza che avevamo e il pubblico ci ha aiutato battendo le mani. È stato pazzesco, abbiamo continuato come se niente fosse successo ed è andata bene! Ho imparato molto da questa esperienza, ho capito che non conta quanto ti prepari se non sei in grado di reagire onestamente a una situazione reale, fatta di errori, paure e imprevisti.
Si prevede – incrociamo le dita – un 2021 pieno di musica e di sorprese per Fulminacci. Ci anticiperesti qualcosa?
Purtroppo, vista la situazione si naviga a vista. Certamente entro qualche mese uscirà il mio nuovo album, di cui Canguro e Un fatto tuo personale fanno parte. Spero di poter tornare a fare concerti il prima possibile, per rendere concreta la musica e l’energia delle persone.
Fulminacci, artista dal quale ci si aspetta un nuovo buon pezzo con la stessa certezza che solo un autore di una elevata caratura può dare. È inevitabile fare similitudini o accostamenti a ciò che di grande c’è e, soprattutto, c’è stato nel cantautorato italiano. Grazie exitwell per questa intervista trasversale e suggestiva, qualsiasi cosa ci riserverà Fulminacci con il nuovo album sarà sicuramente una nuova conferma!