– di Assunta Urbano.
foto copertina di Sara Pellegrino x Mine_b –
Correva l’anno 2017 e l’indie italiano era ormai una presenza fissa – soprattutto, ma non solo –, nelle case di adolescenti e studenti fuorisede. Nel mio caso, forse, un po’ di colpa è mia. Volevo conoscere tutto quello che veniva pubblicato, anche nel caso in cui la qualità fosse assente. Così, ogni mattina, preparando religiosamente la moka, selezionavo un artista diverso da amare o da cancellare dalla memoria il prima possibile.
È così che ho conosciuto Galeffi, con il suo primo successo Occhiaie. Il 24 novembre di quell’anno, il cantautore ha pubblicato il suo primogenito Scudetto per Maciste Dischi. Mi è rimasto impresso fin dal primo ascolto, dato che il disco racchiude in sé riferimenti all’arte a 360 gradi. Letteratura, cinema, anima british e calcio.
Nello stesso modo in cui ha colpito – positivamente – me, è arrivato facilmente al pubblico. Il successo postumo a Scudetto ha portato Galeffi ad esibirsi sui palchi più prestigiosi del circuito. L’abbiamo visto al Mi Ami Festival a Milano e al Primo Maggio a Roma, fino ad arrivare, poi, al coloratissimo Sziget Festival a Budapest nel 2018.
Se il primo lavoro è davvero da intendere come una “prova”, adesso la trasformazione del musicista si può definire completa. A due anni di distanza dalla pubblicazione di Scudetto, Galeffi si è leggermente distaccato da quell’ambiente, proponendosi agli ascoltatori con una nuova veste.
Si sono susseguiti a fine 2019 i tre brani Cercasi Amore, America e, ad inizio 2020, Dove Non Batte Il Sole. Per conoscere nei dettagli questo nuovo viaggio, abbiamo incontrato il diretto interessato.
Negli ultimi mesi hai pubblicato tre pezzi: Cercasi Amore, America ed il più recente Dove Non Batte Il Sole. Si tratta di tre brani diversi tra loro, ma soprattutto di un universo distaccato da quello che era il mood di Scudetto. C’è sicuramente un’attenzione maggiore alle sonorità. Cosa ti ha spinto a questo cambiamento? E cosa significano, per te, queste canzoni?
Mi sembra, innanzitutto, un’evoluzione necessaria. Come in ogni lavoro, col passare del tempo, cresci, impari i trucchi del mestiere, capisci delle cose, che poi vuoi mettere in pratica. Per come la vedo io, è un percorso naturale evolversi e cercare nuove strade. Non per forza questo deve corrispondere all’andare avanti. Magari, c’è anche bisogno di andare un po’ indietro per migliorarsi.
Le prime due canzoni hanno voluto anche creare un senso di shock per la fanbase. Il primo obiettivo era quello di far comprendere che il disco che uscirà non sarà identico al precedente. Per questo motivo sono usciti un pezzo rock e un pezzo jazz. Ci sarà altro da aspettarsi. Poi, sta ai fan decidere se continuare a seguirmi o meno.
Questo, però, farà avvicinare anche altri ascoltatori.
Esattamente. La speranza è proprio quella di attirare, nel frattempo, chi ascolta un altro tipo di musica a questo disco, che è molto vario. Non segue un filone, ci sono più generi. Apparentemente sembra un disco incoerente, ma è nella sua incoerenza che trova coesione.
Cercasi Amore (il primo singolo che ha preannunciato il lavoro) racchiude in sé un’anima rock ed un sound più graffiante. C’è stato qualche artista, o qualche ascolto, in particolare, che ti ha influenzato ed ispirato nel periodo in cui hai scritto questa canzone?
Cercasi Amore, così come la si può ascoltare oggi, è la terza versione della canzone. Si dà per scontato che quando un brano esce sia esattamente come uno l’ha scritto in partenza. Invece, non è così. Cercasi Amore era nata in un modo, poi si è trasformata in corso d’opera due volte. Gli artisti che ricorda di più sono i Blur e i Black Keys, come tipo di approccio sonoro. I due gruppi citati mi appartengono da anni, non da sei mesi. Per chi conosce Scudetto, Cercasi Amore è tendenzialmente una Camilla più incazzata. Anche Camilla aveva delle sonorità simili, questa è solo più graffiata.
Poi, anche in Camilla c’erano riferimenti più british.
A proposito di riferimenti, un punto saldo per te è Cesare Cremonini. Una passione profonda, che accomuna un’intera generazione italiana, ovvero noi della Generazione Y (i nati dal 1981 al 1996). Cosa rappresenta Cremonini nel tuo modo di scrivere?
Cesare Cremonini, per me, rappresenta un esempio, perché è un artista che non si è mai venduto al mercato. È sempre stato coerente e si è sempre evoluto. Non ha mai fatto un disco uguale ad uno dei precedenti, pur rimarcando la sua identità. Il modo di scrivere testi e melodie che uno ha rimane più o meno quello durante tutta la carriera. È una roba tua, che sintetizzi a modo tuo. Cremonini ha sempre modificato gli arrangiamenti, l’approccio, l’attitudine. Pur sperimentando, è rimasto sempre coerente.
Certo. È un rischio che ha corso. Infatti, non tutti i suoi album sono piaciuti allo stesso modo al pubblico.
È un rischio necessario, soprattutto per te stesso. Se fai sempre le stesse cose, poi non risulti più sincero. Questa cosa alla lunga arriva alla gente. Le mode spero che passino e che rimanga solo chi è bravo.
Ecco, parlando di questo argomento, in fin dei conti “…Squérez?” è proprio quel disco che conserva la sua anima vitale, più che mai, anche vent’anni dopo. Pensi che gli artisti della scena indie-itpop degli ultimi dieci anni potranno essere, per le nuove generazioni, quello che per noi ha significato in parallelo Cremonini?
Qualcuno sì. Dipende da cosa accadrà nelle loro carriere. Ognuno si sceglie un suo percorso. Ovviamente per motivi “poco creativi”, non sempre si ha la libertà di fare ciò che si vuole. Alla lunga, però, tutto dipende da te. Sulla carta, me ne vengono in mente tanti che potrebbero fare la carriera di Cremonini, così come i loro dischi rimarranno. A parte qualche gruppo, che ha già diversi dischi sulle spalle, il 70 % ha pubblicato al massimo due dischi. È ancora troppo presto per dirlo, si vedrà tra almeno cinque anni.

foto Mine_b
Invece, riguardo la tua carriera musicale, c’è qualcosa che rimpiangi e vorresti cambiare del tuo passato?
Dire di sì è troppo facile. Quindi, ti dico di no. Ovviamente sono stati fatti degli errori, ma va bene così.
All’interno dei tuoi testi ci sono numerose citazioni. A partire da “Kerouac e Pessoa” in Tazza di Te, per arrivare, poi, a Tottigol. Letteratura, calcio e musica (e chi più ne ha, più ne metta) si fondono efficacemente. Mi risulta inevitabile chiederti quale sia la tua concezione dell’arte.
Secondo me, l’arte non è qualcosa che deve obbligatoriamente farti star bene. L’arte “ti deve fare”. Deve smuoverti, infastidirti, farti sorridere, stimolarti. Tutto ciò che non è indifferente, come proposta culturale, è arte. Non può essere sempre accomodante. Secondo me, tutti i grandi artisti se ne sono fregati ed hanno fatto quello che volevano. Di base l’arte è identità. Se ci pensi, i grandi artisti hanno un loro marchio di fabbrica. Allo stesso modo, anche i calciatori. Ad ogni nome associ ciò che li ha resi celebri.
Un altro tassello nel puzzle del mondo artistico di Galeffi è sicuramente il cinema. Questo ci porta ovviamente a parlare dei videoclip realizzati per gli ultimi pezzi usciti. In particolare, c’è la collaborazione con Ground’s Oranges, per Cercasi Amore, e con Luther Blissett, per America e Dove Non Batte Il Sole. Come nascono le idee per questi lavori?
Ogni video ha una storia a sé. Io sono un fan del collettivo Ground’s Oranges, che ha fatto diversi video nel circuito. Li ho contattati ed ho mandato loro il pezzo Cercasi Amore. Avevo delle idee, ma loro sono molto creativi e non mi andava di influenzarli. La loro idea, inizialmente, la trovavo un po’ strana. Ritornando al concetto di arte, meglio strano che neutro. Al massimo potrebbe non piacerti, ma ti resterà impresso. Abbiamo scelto questo video un po’ particolare, in cui il protagonista è una persona affetta da nanismo.
America, invece, è nato una sera a Milano. Parlando con questo mio amico, ad un certo punto siamo arrivati alla conclusione che potesse essere figo fare una sorta di citazione a La La Land, per l’atmosfera un po’ intima, un po’ sognante, che ricorda gli inizi del Novecento. Sono andato a rivedermi il film, ho trovato delle scene che potevano essere giuste, l’ho girate e le ho passate ai ragazzi. Quindi, in questo caso è partito da questa mia idea.
L’ultimo, Dove Non Batte Il Sole, è stato un video fatto in fretta. La canzone è uscita subito dopo la befana (10 gennaio ndr.), in un momento post-vacanza un po’ per tutti gli italiani, e non ho avuto modo di partecipare personalmente alle riprese. I Luther Blissett sono di Milano, io sono a Roma ed è un po’ complicato. Io, comunque, per quel video ci vedevo bene un omaggio a Wes Anderson. Ho mandato dei riferimenti e loro hanno creato tutto il resto.
Certo, si sente molto Wes Anderson nel video.
In occasione dell’uscita di Cercasi Amore hai scritto: “Non mi abituerò mai al fatto che ad un certo punto le canzoni diventano un po’ di tutti”. Dunque, che cosa provi quando un testo scritto da te, con una sua storia personale, viene integrato e reinterpretato diversamente da un tuo fan?
È, più che altro, strano. Nel momento in cui esce una canzone, prima di tutto, non è più tua, e poi è già vecchia. Tu pensi sia appena nata, ma in realtà è appena morta. È una cosa assurda. Il cantautore pensa che il pezzo nasca nel momento in cui diventa del pubblico. In verità è morta in quel momento lì. In qualche modo, è un lutto. È come se si facesse una sorta di funerale ai concerti quando la gente la canta. A quel punto, è come se tu la riportassi in vita durante il concerto. Comunque, è una cosa molto tetra questa.
Effettivamente sì. In un certo senso, poi, è come se cambiasse anche il significato. Io, che la integro, magari attribuisco la canzone a qualcosa che è capitata nella mia vita.
Ognuno la vive a modo suo. Quella è una cosa molto più interessante.
In conclusione, dopo aver parlato dei tre pezzi che anticipano il disco, ricollegandoci al sound di cui parlavamo in apertura, hai già immaginato una struttura per i live? Sarà diversa rispetto a quella di Scudetto?
Non ci ho ancora pensato, sai? Devo iniziare a pensarci. In ogni caso, ti assicuro che ci vedremo presto.