– di Luigi De Stefano –
Sono andato a rileggermi il live report che ho scritto due anni fa per il concerto di Giorgio Poi al Quirinetta, il suo debutto assoluto come solista. Come previsto, non c’era dentro niente di particolarmente interessante.
Al tempo era appena uscito Fa Niente, eseguito sul palco in maniera impeccabile assieme a un bassista e un batterista. Avevo buttato giù qualche parola sull’album, sulle cover scelte per rimpinguare un repertorio ancora esile, un accenno a un inedito presentato timidamente, quasi chiedendo il permesso, e poco altro.
Ventiquattro mesi esatti più tardi, per il cantautore novarese è cambiato tutto.
Nonostante due singoli-bomba (che non è stato più capace in seguito di replicare – ma non era facile) e un disco adorato dalla critica, l’accoglienza del grande pubblico non era infatti stata eccezionale. Spia più impietosa fu l’edizione 2017 di Roma Brucia, quando le persone accorse a vederlo durante la prima serata furono la metà di quelle rimandate a casa a biglietti finiti il giorno successivo, quando a fare da headliner c’erano Carl Brave x Franco126.
Il tutto esaurito registrato dal Monk un mese abbondante prima di questo concerto non è però un caso, ma il frutto di due anni di lavoro costante: concerti in Italia e negli Stati Uniti, un paio di collaborazioni molto, molto azzeccate e soprattutto un nuovo album, Smog, sonicamente ben più vicino allo zeitgeist e al gusto del pubblico rispetto al lavoro d’esordio.
E così sul palco sono di nuovo saliti Giorgio Poi, Francesco Aprili e Matteo Domenichelli, ma stavolta con loro c’era anche Frankie Bellani alle tastiere, e forse la differenza è tutta lì.
Smog, per stessa ammissione dell’autore, è un disco pensato per essere eseguito da quattro persone, e quindi volontariamente imbevuto di synth. È un disco molto piacevole, come al solito ben scritto, ma che in fondo dura mezz’ora, e si ascolta prima di passare ad altro.
Ecco: Giorgio Poi ha un pregio, quello di quello di avere una cifra stilistica assolutamente unica nel panorama italiano, ma anche un difetto, quello di tendere a riproporre questa cifra ad libitum. Se però nel contesto di un album l’esperienza è ristretta, e ottimizzata in tutti i modi consentiti dalla moderna tecnologia musicale, nell’ambito di un concerto di durata (finalmente) canonica e composto (finalmente bis) solo da suoi brani, è difficile non avvertire dopo un po’ una certa diffusa sensazione di monotonia.
Questo articolo non è il posto adatto per parlare del nuovo disco, se non per dire che – ancora una volta – la resa dal vivo è perfetta, praticamente indistinguibile dall’originale. Lo stesso non si può dire però per le tracce dell’album precedente, annegate in un mare di tastiere e di basi percussive che finiscono per saturare tutto, per riempire ogni possibile anfratto. Spariscono così quelle pause piene di attesa e di significato, si dissolvono quei momenti sospesi che erano parte integrante di una scrittura che aveva fatto innamorare tanti ascoltatori; sbiadiscono insomma in un melange indistinto (ma ballabile) tanti di quegli arguti cambi di accordo e di tonalità, tante di quelle ritmiche avvolgenti che spesso ci si cantava in testa al posto delle parole.
La nuova versione di Paracadute è migliore o peggiore di quella precedente? Probabilmente molti opteranno per la prima ipotesi, ma chissà se in questa veste avrebbe mai visto la luce.
Torniamo al concerto.
Si comincia (come Smog), con l’ossessivo refrain vocale à la Laurie Anderson di Non Mi Piace Viaggiare, e si prosegue alternando nuovi e “vecchi” brani, in maniera quasi regolare, un ritornello azzeccato dopo l’altro. Verso la metà rimane da solo per una piacevole versione alla chitarra acustica di Missili, il suo “più grande successo” (almeno stando a Spotify), nonostante ne abbia scritto solo il ritornello. È un indicatore forse un po’ avvilente, ma basta vedere cosa domina la pagina di un gigante come McCartney per non preoccuparsene troppo. Subito dopo il momento migliore, con La Musica Italiana, un brano non privo di furberie, ma che riesce ad essere lo stesso, perlomeno per questi tempi, assolutamente struggente.
Dopo aver lasciato momentaneamente la scena ai compagni di palco per lo strumentale che dà il nome all’album, Giorgio torna in scena per portare il concerto verso la conclusione, di nuovo alternando brani vecchi e nuovi. L’ultimo di questi è forse il più irritante, una Niente di Strano completamente normalizzata, che non uccide il suo innato fascino, ma funge più da illuminante esempio di quanto basti poco a trasformare in meglio o in peggio un brano, fino quasi a togliergli l’anima.
L’uscita pre-bis dura poco. Si torna subito a mille con una Tubature abbastanza fedele, che unisce tutto il pubblico (a dire il vero già parecchio partecipe) in un’unica voce. Si chiude con Stella e Vinavil, i singoli che hanno introdotto il nuovo Giorgio Poi, e quindi quelli più adatti a mandare la gente a casa contenta. Quest’ultima curiosamente inizia con un’intera strofa intimista, solo piano e voce, a dimostrazione che “un altro mondo è possibile”. Forse non SEMPRE necessariamente auspicabile, ma comunque possibile.
Stupisce un po’ che non ci sia stato il tempo (o la voglia) di suonare Doppio Nodo, una fan favorite, e probabilmente uno dei pezzi vecchi che meglio avrebbe funzionato con una formazione a quattro, ma così è.
Si può essere più o meno maliziosi nel figurarsi il perché, ma questi due anni sono la storia del successo di Giorgio Poi. Alla fine ha avuto ragione lui, e per la musica italiana, tutto sommato, è una gran buona notizia.