– di Assunta Urbano –
Quando ti capita di intervistare personaggi che hanno fatto la storia della musica italiana, come i Marlene Kuntz, hai sempre paura di fare le domande sbagliate o troppo scontate. Mentre mi preparavo alla chiacchierata su Zoom con Cristiano Godano (voce) e Riccardo Tesio (chitarra), ho trovato due spunti di riflessione su cui mi sono soffermata tanto.
Nel primo, il sound del gruppo rock, originario della provincia di Cuneo e nato nel 1989, è stato comparato alle sonorità dei Sonic Youth, senza abbandonare la forma cantautorato nei testi.
Il secondo, ancora più emblematico, è quello del titolo dell’articolo. Non ho potuto far a meno di chiedere ai due cosa pensassero di quella citazione. La loro risposta alla domanda è stata sicuramente più esaustiva di quella che avrei potuto dare io.
La conversazione ha preso il via con i due progetti che hanno coinvolto i Marlene Kuntz negli ultimi mesi, per poi arrivare all’inevitabile dilemma: cosa ne sarà della scena alternativa nel nostro Paese?
Giovedì 17 febbraio è uscito nelle sale cinematografiche Io sono Vera, film di cui avete curato la colonna sonora. Non è la prima volta che ricoprite questo ruolo, anzi, era già successo nel 2009, con Tutta colpa di Giuda, anche se in modo diverso. Come avete vissuto questa esperienza?
Riccardo Tesio: Nel caso di Tutta colpa di Giuda, avevamo un brano nei titoli di coda. Pezzo che poi è stato candidato nel 2010 ai David di Donatello come Migliore canzone originale. Il resto del film era costituito da pezzi già editati. In questo caso, invece, con Io sono Vera è successo il contrario: la canzone finale non è la nostra, ma la maggior parte dei suoni che si sentono sono stati creati appositamente da noi. Quindi, è la prima volta ufficiale che ci occupiamo della colonna sonora.
In che modo cambia il tipo di approccio dallo scrivere per lo schermo rispetto al lavorare su un disco?
RT: Chiaramente, entrano in gioco l’immagine e la sceneggiatura. Quando scriviamo un disco, concepiamo un immaginario e i testi. Invece, qui la storia è stata scritta e pensata da qualcun altro. Il nostro compito è fare da terzo ingrediente per trasmettere al pubblico ciò che desiderano lo sceneggiatore e il regista. Le immagini raccontano qualcosa, le parole un’altra e la musica completa il tutto. È un lavoro più di equipe.
Dato che le parole sono importanti, è bello che si parta dalla sceneggiatura.
RT: Non credo ci sia una regola generale. Nel nostro caso è stato così, anche perché siamo stati coinvolti nel progetto quasi dall’inizio. La sceneggiatura c’era già, ma ancora nessun fotogramma definitivo. Ci hanno aiutato la visione e alcuni spunti da parte del regista. Siamo partiti da lì e abbiamo iniziato a improvvisare. Ci siamo immersi in un mondo sonoro e in base a quello abbiamo stabilito alcuni paletti creativi, come gli strumenti, i sintetizzatori, le percussioni, che avremmo usato. Volevamo che tutta la colonna sonora avesse una sua coerenza. Un progetto del genere nasce da una collaborazione.
Negli ultimi mesi, i Marlene Kuntz sono stati protagonisti anche di un altro progetto molto interessante. Lo scorso autunno vi ha visti impegnati nell’ambiziosissimo “Karma Clima”. Com’è nata quest’idea?
Cristiano Godano: Una decina di anni fa, è iniziata a venir fuori l’esigenza di capire come fare per sostenere i propri dischi in una maniera meno tradizionale. L’internet ormai è diventato partecipe della vita di tutti noi. E così, anche il mondo della musica sta cambiando. Di questi tempi, un disco rischia di avere solo tre oppure quattro giorni di vita e poi l’attenzione della gente si sposta altrove.
È duro da accettare e frustrante, perché non è quello a cui gli artisti della nostra generazione erano abituati. Purtroppo, non si può lottare contro questa presenza ingombrante. Quindi, lentamente, la nostra idea ha preso forma, con consapevolezza. Siamo arrivati all’intenzione di creare dischi in luoghi con particolare fascino. Abbiamo pensato a una serie di parole chiave per realizzarlo, che tutte insieme conducono al tema della sostenibilità e del cambiamento climatico.
Le esperienze di cui parlo hanno a che fare con residenze di natura artistica, in luoghi di resilienza, anche di resistenza per certi versi, di riqualificazione. Si tratta di posti prettamente di montagna o caratteristici di collina. Località a cui una certa consapevolezza dell’umanità sta guardando in previsione del riscaldamento climatico. Tutto ciò è una sintesi di quello che ha rappresentato per noi essere inseriti in questo ambiente. Ci siamo ritrovati qui a scrivere un disco e nel mio caso specifico a lavorare sui testi, spesso sganciato dal mondo. Si ha un’altra impressione della realtà rispetto a quella vissuta in contesti urbani.
Com’è stato coinvolgere i fan nel vostro processo creativo?
CG: Con questa esperienza abbiamo cercato di creare connessioni. Abbiamo proprio favorito l’interazione con i fan. Hanno scelto tra tre giornate precise, in cui abbiamo registrato. Sono stati tre momenti diversi tra loro. Nel primo, i ragazzi hanno assistito ad una session di Riccardo, in un’altra a una di Riccardo, Davide e Sergio. Hanno capito che cosa vuol dire fare un disco. Non c’è la band che suona, qualcuno che schiaccia un registratore e hai la cosiddetta “take”.
Fare un disco vuol dire dedicare il giusto tempo a ogni strumento. Ogni componente suona la sua parte avendo in cuffia la base già registrata in precedenza. Per gli ascoltatori è stata un’occasione sia straniante che affascinante. Il terzo giorno, gli altri seguaci ancora ci hanno visti lasciarci andare in una sperimentazione musicale. Abbiamo capito che per loro era sorprendente, ma anche molto particolare. Nell’ultimo caso, è stato quasi come andare a un concerto dei Marlene Kuntz.
Oltre che “impresa artistica”, è stato un modo per sensibilizzare il pubblico sul tema della crisi climatica. Cosa potrebbe fare il musicista per “salvare il mondo”?
CG: Per migliorarlo, direi quasi niente. Molta gente non se ne vuole rendere conto, perché abbindolata da chi afferma che il problema non c’è. Basta guardare ai ghiacciai che si sciolgono, alle temperature sempre più calde. Il ruolo del musicista – messo insieme alla figura degli scienziati – è contribuire alla riflessione. Se tramite la nostra esperienza potessimo essere d’aiuto, avremmo fatto centro.
Inoltre, tra gli obiettivi c’è stata anche la riqualificazione dei vostri territori. Che rapporto avete con le radici?
CG: Ci viviamo da sempre. Riccardo ha sposato una donna emiliana che gli ha fatto capire quanto siano importanti questi territori.
RT: Quando abbiamo messo su la band, il nostro desiderio era quello di fuggire, andare in giro. Dopo tantissimi chilometri e posti visitati, torni, e ti rendi conto che c’è del bello intorno a te, senza bisogno di andare lontano. Credo valga un po’ per tutti.
Il 16 aprile, i Marlene Kuntz saranno tra i protagonisti di My Generation, programma musicale in onda su Sky Arte. Qual è la sensazione che si prova a essere rappresentanti di una generazione (e anche più di una)?
CG: Noi abbiamo la consapevolezza di aver vissuto un periodo magico della musica rock in Italia. Spesso tendiamo a non ricordarcelo, perché avendolo vissuto giorno dopo giorno era una cosa connaturata in noi. Soprattutto recentemente mi è capitato di parlare con persone più giovani che mi facevano notare di non aver avuto la stessa fortuna. Lì mi rendo conto che per chi ama il rock oppure alcune sonorità alternative o indie – secondo la vecchia accezione – quello è stato il periodo in cui l’Italia si è volta verso un sound del genere. C’era un fermento, una frenesia, una partecipazione. Si andava ai concerti non solo per la musica, era proprio “la cosa da fare”. Mentre adesso non è lo stesso. Sono ondate, questioni generazionali. È chiaro che essere tra chi questi aspetti li ha creati, alimentati, li ha fatti vivere, è una bellissima sensazione.
Io sono sicuramente tra quelli che avrebbero voluto vivere al massimo quegli anni, ma non ho potuto per evidenti questioni anagrafiche. Proprio con riferimento alla fine degli anni Novanta, lo scrittore Enrico Brizzi vi ha definito «non un gruppo di rock italiano, ma l’unico gruppo italiano di rock». Oggi, come vi sentite riguardo questa visione?
CG: Sicuramente non l’unico. Paragonando quella situazione al periodo attuale, oggi non è il momento del rock. Nella nostra epoca c’erano tantissime band e i Marlene Kuntz sono riusciti ad essere ancora qui, dopo più di trenta anni. Credimi, questo è un miracolo. Siamo rimasti noi, gli Afterhours, i Verdena, che però sono già più giovani, i Massimo Volume. Adesso, però, c’è da dire che non è facile. Per le nuove band è una mission impossibile.
Ciò che è successo in quell’epoca magica è stata sicuramente la capacità di molti gruppi di portare il rock alla ribalta. La scena alternativa attualmente gode di pessima salute, ma cosa potrebbe fare un giovane musicista per emergere e riuscire a farsi sentire?
CG: Per me, in questo momento non si può far molto. È importante avere tanta voglia di suonare, perché è bello farlo. Avere un progetto, stare in sala prove, è uno dei migliori passatempi giovanili, a prescindere che poi diventi un lavoro effettivo. In questo momento non è facile, perché la musica non è remunerata. Il discorso è principalmente questo.
L’unica che ha seguito economico è quella che su internet funziona, che va per la maggiore. Il pop, il rap, il panorama “indie” pop. Se fai questa roba qui, hai possibilità di fare grandi numeri. Se fai rock, puoi provare a fare come i Måneskin, ma non credo che chi ha un progetto alternativo vuole ambire a loro come punto di riferimento. Secondo me, loro suonano molto bene e spaccano, ma sono un fenomeno mainstream. I gruppi alternative penso abbiano modelli diversi, che però non sono fruttuosi. Sentiamo Riccardo, magari ha un po’ di ottimismo da dispensare.
RT: Sto cercando dell’ottimismo [ride, ndr]. Sono d’accordo con Cristiano sui due punti. Suonare fa comunque bene e consigliamo di non smettere, soprattutto per il piacere di farlo. Poi, già non era facile quando abbiamo iniziato la nostra carriera musicale. Credo che adesso la situazione sia ancora più estremizzata. I gruppi di successo hanno un seguito spropositato, ma viene a mancare la fascia intermedia. Quella che non era sulla cresta dell’onda, ma riusciva a fare dei tour e a portare a casa la pagnotta. Ora o sei al top o non hai nulla. Magari ci vogliono altre intuizioni. Non è soltanto un discorso musicale, ma anche di immagine, di comunicazione.
Abbiamo imparato che può succedere di tutto.
RT: Questo è vero. È un periodo in cui succedono cose inaspettate. Quando abbiamo iniziato noi con i Marlene Kuntz, il percorso era più standard. Bisognava farsi scoprire da una casa discografica e poi era tutto automatico. Adesso, c’è una componente di imprevedibilità. Chissà.