– di Naomi Roccamo –
Non so cosa aspettarmi da questa telefonata con Pablo America; un confronto delirante, una conversazione criptica, un dialogo inaspettatamente piatto? Non lo so, ma nell’attesa la mia curiosità cresce.
Certamente l’autore di singoli come “Noi non siamo il punk”, “Loco Loco” e la freschissima “Fragole e rock‘n’roll” pubblicata il 2 marzo per Universal Music prometteva bene, forgiato dalle mille personalità incontrare durante la sua precedente vera e propria carriera da taxi driver.
Queste personalità sono tutte ben visibili nello spettro poliedrico che sembra essere la creatività di questo artista.
Così, con la copertina di “Future Nostalgia” di Dua Lipa che mi perseguita e che ironicamente la mia mente continua a sovrapporre all’immagine di Pablo America al volante, inizia la nostra chiacchierata.
Mi riprometto di fargli notare il simpatico paragone ma alla fine me ne dimentico. Però parto proprio da quel viaggio in auto.
Vieni dal mondo dei driver, di Uber in particolare. Che musica facevi ascoltare ai tuoi clienti?
A volte mettevo roba che piaceva a me e la lasciavo in sottofondo, altre volte mi chiedevano cose specifiche, altre volte ero un po’ paraculo e altre volte cercavo delle reazioni, sperimentavo. Era una microsituazione, quella del taxi, in cui cercavo l’empatia. Alcuni mi chiedevano esplicitamente di non voler sentire nulla.
In che senso sperimentavi?
Per esempio mettevo una band canadese, i Trust, o delle cose un po’ più sconosciute solo perché ero curioso di come gli altri avrebbero potuto reagire.
Di “Fragole e rock’n’roll” hai detto: “L’ho fatta anche sentire al salumiere fan dei king gizz e gli è piaciuta molto”. Pensi che la tua musica sia per tutti?
Sì, a Michele, siamo amici. Sinceramente non lo so. A me piace tanto ricordarmi di quando ascoltavo la musica dei miei 17, 18 anni, l’effetto che mi piaceva. Quando scrivo cerco di stupire il me diciassettenne. Non mi chiedo troppo cosa succederà. Io sono una spugna, assorbo tutto ed era così anche da piccolo. Sostanzialmente provo a ricreare quelle situazioni, non so se poi ci riesco, ma mi diverto.
Ecco. Hai assorbito anche qualche testimonianza particolare dalle persone conosciute facendo questo lavoro? Condividendo un momento in qualche modo intimo c’è qualcuno che ti ha ispirato?
Parto dal presupposto che se potessi fare l’Uber driver lo farei ancora, lo farei per sempre. E poi proprio durante quel periodo ho conosciuto Antonio Sarubbi di Maciste Dischi. Lui è stato ed è ancora una figura molto importante all’interno di quello che faccio. Io all’inizio mi concentravo molto sulle ballad e lui ha tirato fuori una mia controparte artistica. Al nostro primo incontro, negli uffici di Maciste, mi disse “belle le ballad, ma prova a divertirti anche”. E da quella conversazione nacque “Grabowski” e iniziai a lasciarmi andare.
Mi viene in mente “Taxi Driver” di Rkomi quasi automaticamente. Ti è piaciuto il concept?
Anche se non ho ascoltato tutto l’album di fila posso dirti che sì, mi è piaciuto, la parte visual la trovo fighissima e poi adoro “10 ragazze” con Ernia.
La mia impressione sentendoti e vedendoti la prima volta fu proprio “lui si sta divertendo”. Sei davvero così spontaneo o sei più quadrato di come ti mostri?
Diciamo che sono entrambe le cose. Sono cresciuto con l’idea che le canzoni fossero una cosa seria e quella cosa lì non la perdi. Quando avevo tipo 19 anni andavo a Milano facendo il pendolare da Torino due, tre volte a settimana con un compositore e bassista storico, collaboratore anche di Battisti che faceva il melodista e mi ricordo che la prima cosa che mi disse fu “le canzoni sono la melodia”. Quella persona lì mi ha insegnato che le canzoni sono una cosa serissima e vanno prese sul serio e avendo assorbito e metabolizzato ciò cerco sempre di far coincidere divertimento e istruzione, non so se mi spiego.
Assolutamente. A proposito di coesistere, tu nella gestione visiva dei tuoi brani unisci due singoli insieme, il videoclip è sempre una canzone diciamo contrapposta all’altra, come in “We are ready to the fight” e “Fragole e rock ‘n’ roll”. C’è un significato più profondo in questo legame? Si tratta di qualcosa voluto da te o dal regista?
Per quanto riguarda l’audio butto lì delle idee però la matrice viene da Maciste, per cercare di non escludere un mondo piuttosto che un altro. Non mi faccio più tante domande sulla ricezione delle cose o su come farle recepire meglio, perché in passato non mi ha fatto stare bene preoccuparmene. Adesso mi butto su un’idea e non ci penso più.
Proprio per questa leggerezza apparente che ti accompagna nella creazione delle cose ti chiedo: ti interessa fare simbolicamente un disco ora come ora? O lo faresti solo per raggruppare tutti i singoli pubblicati fin qui?
1970, esce il primo disco dei Black Sabbath così come esce “Bridge Over Troubled Water” di Simon & Garfunkel. In quel periodo storico il concetto di disco era reale perché volendolo o no, veniva fuori un concept comune. Diciamo che io oggi sto scrivendo canzoni in primis perché per me è essenziale farlo, non so decidere se sia opportuno raggrupparle tutte o meno.
Credo che il paragone con la musica di qualche tempo fa sia non dico necessario però significativo perché ormai i dischi si fanno a prescindere, velocemente e senza pensarci troppo. Ma non è scontato che tutti vogliano veramente farne uno.
Questo è vero però non trovo neanche sia una discriminante. Non c’è un brevetto per le cose belle; Alex Turner degli Arctic Monkeys e Tame Impala fanno uscire un disco a distanza di anni dall’altro, oggi in America c’è chi fa uscire una canzone ogni tre giorni e va benissimo così.
C’è qualcosa che vorresti aggiungere su “Fragole e rock’n’roll”?
In realtà no ma vorrei fare, non ironicamente, un appello: il salumiere che abbiamo nominato prima, Michele, era diventato mezzo virale su TikTok per il suo modo particolare di affettare i salumi, solo che il suo profilo è stato chiuso e mi piacerebbe se venisse riaperto. Ecco, se dovessi fare un disco per davvero un giorno lo dedicherei a lui.