– di Federico Guglielmi –
In giorni non troppo lontani, il termine indie – spesso legato a rock – veniva per lo più utilizzato per indicare musica bella e creativa opera di artisti che non avrebbero disdegnato un posto al sole ma che intendevano condurre il gioco secondo le proprie regole. In seguito, a cavallo tra secondo e terzo millennio, il vocabolo assunse significati più ampi, e qui da noi venne di solito associato a gruppi che per lo più cantavano in inglese e proponevano musica ispirata da band americane come Pixies, Sonic Youth e/o Pavement.
C’era anche chi adottava l’italiano, ma al di là dell’idioma preferito per i testi le proposte indie erano appannaggio di una cerchia ristretta e (più o meno) eletta di appassionati, che ne esaltavano i valori reali o presunti e li elevavano a sorta di autocompiaciuta antitesi al becero nazionalpopolare.
Questo produceva un curioso effetto: tutti gli esponenti della categoria si lagnavano per gli scarsi riscontri ottenuti fuori dal circuito carbonaro, ma se per caso qualcuno riusciva a sporgere il capo oltre il muro del ghetto, su di lui piovevano immancabili accuse di tradimento e meretricio. Situazioni già viste, a conferma di come gli umani siano bravissimi a far finta di non vedere le lezioni della Storia.
Sia come sia, attorno alla metà dello scorso decennio la parolina derivata da independent – le piccole strutture discografiche che a partire dal periodo punk e dopo-punk sostenevano l’underground, ponendosi come alternativa alle major – cominciò a diventare sinonimo di altro: persino di fenomeno generazionale, con le sue norme di condotta sociale (buffi dress code compresi) e di ascolti giusti/sbagliati.
Arduo identificare con precisione il punto di non ritorno, ma un evento cruciale fu l’uscita – era il maggio del 2008, dieci anni esatti fa – di Canzoni da spiaggia deturpata, il per altro validissimo e a suo modo geniale album d’esordio de Le Luci della Centrale Elettrica.
Quando l’angosciata e angosciosa quotidianità narrata da Vasco Brondi in brani tanto sgraziati e visionari quanto evocativi approdò al successo quasi di massa, nulla fu più come prima, e in un attimo quella che voleva essere catarsi da sfiga cosmica si trasformò in celebrazione della sfiga stessa.
A Brondi non si possono imputare colpe, ma il pluri citato verso dalla sua La lotta armata al bar – «che cosa racconteremo ai figli che non avremo di questi cazzo di anni Zero», ovviamente – è un’ottima base di partenza per riflettere su questi cazzo (o magari stracazzo?) di anni Dieci.