C’è stato un momento, a cavallo dei due millenni, dove alla crisi della Grande Editoria Musicale si è contrapposta l’esplosione della piccola editoria indipendente musicale. Poi, la grande livella della crisi: c’è chi è sparito, i più, e chi è rimasto e ha dettato la linea per tutti quelli che son venuti dopo. Tra questi, 42Records rappresenta davvero un caso unico: fondata da Emiliano Colasanti e Giacomo Fiorenza, quest’anno festeggia i 10 anni di attività. Abbiamo chiesto ad Emiliano Colasanti di raccontarci come si lavora per raggiungere il successo.
Se apro la pagina Facebook della 42Records trovo: “Dalla crisi, nella crisi. Alla faccia della crisi”. Qual era il panorama musicale editoriale 10 anni fa?
Nel 2006 ricordo di avere letto un articolo di Paul Morley, uno dei grandi teorici e critici del pop contemporaneo, dove parlava di quell’anno come dell’anno zero della crisi del mercato discografico come l’avevamo conosciuto fino a quel momento. Secondo lui nel 2006 era stato toccato il fondo – e infatti si tratta di una delle stagioni con i numeri più bassi di sempre – e l’anno dopo si sarebbe ricominciato a costruire sulle macerie. Da un lato ci azzeccò, perché con l’uscita di “In Rainbows” dei Radiohead nel 2007 è cambiato il valore della musica digitale, dall’altra sono esattamente dieci anni che leggo articoli del genere e che indicano nell’anno successivo quello della ripresa, che forse non avverrà mai. Ma la crisi, ed è già nell’etimologia della parola, può essere vissuta come un’opportunità per rompere uno schema e creare qualcosa di nuovo ed è questo il modo in cui l’ho sempre intesa io.
Creare una nuova etichetta in tempi di crisi: perché? Come?
Nel 2007 stavo vivendo un periodo molto cupo e l’idea dell’etichetta è nata come una reazione: sentivo il bisogno di fare qualcosa di mio utilizzando la rete come una risorsa e non come un nemico. Quando ho incontrato Giacomo Fiorenza, che conoscevo dagli anni della Homesleep Records [precedente etichetta di Fiorenza, chiusa ufficialmente nel 2009 ndr], ho trovato in lui il partner ideale e siamo partiti. Eravamo molto incoscienti e volevamo solo pubblicare quello che ci piaceva. E di base non abbiamo mai abbandonato quella visione.
Oggi, rispetto allo scorso decennio, le cose per chi pubblica dischi sembrano esser molto cambiate. In meglio o in peggio?
In questi dieci anni il mercato discografico è cambiato forse cento volte di più che nei 20 anni precedenti. Quando abbiamo incominciato noi imperversava il download illegale e stava emergendo il free download come veicolo promozionale, non esistevano i servizi streaming, i vinili non li comprava più nessuno ed era impensabile che un brano di un’etichetta indipendente venisse passato sui grandi network radiofonici. Ora i dischi non li scarica più nessuno, la musica è ovunque grazie allo streaming ma l’ascolto è sempre più frastagliato e il livello d’attenzione limitato, i CD sono diventati dei gadget da stampare in tiratura limitata e la gente è molto più disposta a pagare di più per un vinile che poco per un CD. Fino a tre anni fa il mercato digitale per noi era solo una questione di “immagine” che si basava sullo stare su iTunes giusto per esserci, ora è diventato il modo principale in cui la nostra musica viene diffusa (ma noi vecchiardi non smetteremo mai di credere nei supporti) e le radio si sono accorte che qualcosa stava accadendo e hanno cominciato ad aprire i loro spazi. Certo, c’erano anche più club che facevano live anche di gruppi piccoli e questa cosa, purtroppo, sta venendo sempre di più a mancare.
Tra i primi artisti che avete prodotto ci sono I Cani, forse la prima band, a conti fatti, ad essere uscita dal web. Cosa vi ha spinto a puntare su una band sconosciuta?
In realtà già i demo de Le luci della centrale elettrica e gli Offlaga avevano cominciato a girare sui blog prima di venire notati dalla stampa e dalla discografia ufficiale. Ho conosciuto Niccolò quando era nei Tavrvs, entrambi invitati a fare un dj set a Torino, e pochissimi giorni prima lui aveva fatto la comparsa in un video dei Jacqueries, che uscivano per 42Records. Ci siamo trovati bene ed è nato un feeling, pur essendo due persone estremamente diverse. Nel frattempo era uscita la prima roba de I Cani ed ero stato anche io contattato su Facebook dal profilo anonimo della band. Ho passato un’intera estate ad ascoltare in maniera ossessiva quei due pezzi senza riuscire a capire perché mi piacessero. Un giorno improvvisamente mi viene l’illuminazione e d’istinto scrivo a Niccolò. Non ero sicuro che ci fosse lui dietro I Cani ma sentivo che era così. Io gli ho solo chiesto di sentire i pezzi ed è partito tutto in maniera molto pulita e naturale. Sono onorato di poter lavorare con Niccolò perché è una persona con cui è possibile avere delle idee e pensare al di fuori delle regole normali della promozione discografica.
Le nuove dinamiche di comunicazione, promozione e valorizzazione ci spingono a chiedere:, come si lavora nella “musica liquida” per rendere un prodotto di successo?
Questo agire “fuori dalla scatola” è la cosa che caratterizza 42Records dall’inizio della sua avventura ed è proprio quello il discorso che facciamo quando parliamo di “etichetta nata dalla crisi”. È un po’ il nostro modo per dire “non aspettatevi da noi grandi campagne di marketing e video costosi, ma piuttosto delle sorprese”. Quando I Cani sono usciti tutti hanno pensato che la scelta dell’anonimato fosse una trovata, quando in realtà era un’esigenza vera che poi si è trasformata in una trovata. Così come l’idea di annunciare GLAMOUR distribuendo flyer fuori dal concerto degli Editors a Milano, o AURORA con un tweet di Alessandro Cattelan, sono cose piccole e a costo zero ma che hanno un’eco notevole proprio perché abbiamo trasformato tutto questo in una cifra stilistica della band.
C’è un nuovo pubblico, specialmente nella fascia dei 18-25 anni, che ascolta, ricerca, segue. Qualcosa è cambiato, anche negli ascoltatori?
Nell’ultimo anno si è ampliato il bacino d’utenza, è arrivato molto pubblico giovane che prima sembrava interessato solo all’hip hop. Il grosso è accaduto grazie a Internet e alcuni fattori collaterali come l’esplosione dei meme e di alcune pagine Facebook dedicate a raccontare l’indie italiano con intento satirico. Qualcosa è cambiato quando il video di Cosa mi manchi a fare di Calcutta è diventato oggetto di un post di uno youtuber napoletano che ironizzava sul testo (peraltro scambiando il bambino del video per Calcutta). Era impensabile prima che una cosa del genere succedesse per brano indie italiano e questo ha portato una fascia di età più bassa a scoprire un sottobosco musicale che fino a quel momento parlava prevalentemente a un’altra generazione (quella dei concerti, dove molte di queste band ottengono da anni risultati maggiori di alcune proposte mainstream molto più visibili a livello mediatico).
E in tutto questo, il “vecchio” pop come stava?
Credo che le ragioni di questo nuovo pop italiano siano figlie dell’impoverimento culturale in cui il pop italiano, quello vero, versa da decenni, con prodotti tutti uguali che ricalcano le hit straniere di sei mesi prima, scritte dagli stessi autori e realizzate con i soliti quattro produttori artistici. In un mercato così saturo è successo che qualche programmatore radiofonico, dovendo passare più musica italiana, si sia rotto le scatole delle solite cose e ha preso confidenza con roba che in radio ci può andare con dignità, senza svendersi e senza rinunciare alla propria personalità artistica.
Ad oggi sembra “mainstream” e “indipendente” siano in sovrapposizione. Che succederà alle case discografiche indipendenti?
In realtà la sovrapposizione, in tutto il mondo, esiste da almeno un decennio. Con l’avvento dello streaming le barriere tra i generi sono crollate. Un ventenne di oggi cresce ascoltando musica proveniente da tutto il mondo e da tutte le epoche. L’indie non è più quello di un tempo perché il mainstream non è più quello di un tempo e non c’è più il divario di prima. La differenza che persiste ancora è quella tra la musica “televisiva” e quella che in tv ci passa di rado. Le dinamiche sono sempre più o meno le stesse, però riprodotte in piccolo, l’unica differenza vera è che una band per emergere non ha più bisogno di passare per forza da una major e le etichette possono essere delle strutture che usano i fondi dati dalle major (o dai distributori indipendenti) per continuare a fare il lavoro che hanno sempre fatto ma con una sicurezza economica differente.
In questo orizzonte in perenne divenire, come vedi il lavoro di 42Records in futuro?
42Records continuerà a pubblicare i dischi che piacciono a me e Giacomo senza pensare al dovere finire in determinati spazi. Abbiamo un’identità musicale molto definita, ma basata sulla varietà e la diversità e vogliamo restare esattamente quello che siamo. Un luogo dove una cosa che finisce nella top 30 dei brani più passati dalle radio può convivere con un disco di elettronica cosmopolita come quello di Go Dugong, l’italo disco di Jolly Mare (che ha avuto risconti importanti in giro per il mondo) e una cosa “alta” come Corrado Nuccini ed Emidio Clementi che musicano i “Quattro quartetti” di T.S.Eliot.