– di Martina Rossato –
Max Tozzi e Giacomo Ganzerli insieme formano un duo di jazztronica, i Lakomb. Il progetto è nato durante la pandemia come naturale risposta all’inerzia del periodo, con l’obiettivo di concedersi la massima libertà espressiva possibile. Il risultato è il loro primo EP “Long Distance Manifesto”, da poco uscito per Emic Entertainment. L’EP è composto da quattro brani che fondono jazz, elettronica, fusion e neo soul. Un suono caratteristico che prende ispirazione dalla contemporaneità del jazz elettronico e dal classico delle sfumature fusion anni ’90.
I Lakomb cercano di unire gli opposti: divertimento e riflessione, ricerca e disimpegno per creare un paesaggio sonoro unico e aperto ad ogni tipo di interpretazione. Abbiamo fatto qualche domanda a Max Tozzi.
Cosa significa fare jazztronica nel 2022?
Significa, oggi più che mai, contaminare. Usare soprattutto il linguaggio armonico del jazz e mescolarlo con le sonorità elettroniche, ma anche con le forme della musica elettronica che spesso sono più libere rispetto a quelle del jazz canonico tema-soli-tema. Significa anche assorbire la lezione di una certa “canzone” alternativa, penso ad esempio ai Radiohead di Kid A, liberandola ancora di più dai vincoli della successione di strofe e ritornelli. Di certo nella jazztronica che facciamo noi l’aspetto che più viene penalizzato rispetto al jazz è la dimensione dell’improvvisazione. È molto difficile poter arrivare all’interplay jazzistico avendo a che fare con le sequenze elettroniche, ma è comunque possibile e di certo è una delle cose su cui Lakomb lavora e lavorerà.
E dove vi collocate rispetto alla musica italiana di oggi?
Esiste tutto un sottobosco italiano molto florido che ha parentele strette con il jazz pur non essendo musica improvvisata di stampo afroamericano. Penso al LoFi jazz, al neo soul e al nu jazz. I nostri brani sono un po’ a cavallo tra questi generi. Si muovono su territori di confine molto labili senza però prendere una posizione precisa. È il solito pregio e limite delle contaminazioni. Per chi è curioso può essere interessante farsi spiazzare, ma chi ha bisogno di etichette per catalogare ciò che ascolta può trovarsi disorientato.
Il vostro progetto sembrerebbe essere molto legato al mondo del cinema. Come si intersecano secondo voi le due arti?
Il nostro nome è un tributo cinematografico. Nel film Incontri ravvicinati del terzo tipo c’è uno scienziato francese che trova un modo per comunicare con gli alieni attraverso la musica. È interpretato da un grandissimo regista, Francois Truffaut, che per l’occasione veste i panni di Claude Lacombe, appunto. Abbiamo tolto una lettera e ne abbiamo cambiata un’altra per camuffare questo tributo e renderlo più interessante graficamente. Tutta la musica strumentale ha forti legami con il mondo del cinema. Per quanto ogni brano abbia una funzione artistica che può esaurirsi nel suo stesso essere eseguita ed ascoltata, è altrettanto vero che tutta la musica, soprattutto strumentale, può avere un impatto notevole se associata alle immagini. Nel cinema la musica trova spesso il luogo ideale per essere messa in evidenza e per acquisire significati ulteriori. È quasi un paradosso quello che consente ai brani, strumentali e non, di ricevere più attenzione di quanta ne riceverebbero se ascoltati senza essere accompagnati ad immagini. Credo sia un meccanismo simile alle dinamiche legate ai ricordi personali. Ci sono canzoni che apprezziamo tantissimo perché le colleghiamo ad avvenimenti che ci sono capitati. Il cinema ha il potere di indurre una sorta di ricordo collettivo e, di conseguenza, di valorizzare maggiormente e per sempre un brano musicale.
Spesso la musica strumentale rischia di diventare un semplice sottofondo. A quali ascoltatori vi rivolgete, almeno idealmente? E che tipo di risposta vi aspettate dal vostro pubblico?
È verissimo. C’è un filo sottile che lega la Muzak da ascensori al Jazz e che relega la musica strumentale a background indistinto. Credo però che il discorso si possa allargare anche alla musica cantata. Siamo immersi in una continua colonna sonora che diventa rumore di fondo. Quanti di noi si prendono davvero la briga di comprendere il testo di una canzone che passa mentre si sta facendo un aperitivo o si stanno scegliendo dei vestiti in un negozio? Forse la musica strumentale ha il vantaggio di essere più apprezzabile anche ad un ascolto disattento. Ovviamente preferiremmo avere ascoltatori che si siedono ed ascoltano i nostri brani per intero, ma siamo consapevoli che questi non sono più i tempi di un tale approccio alla musica. La fruizione di qualsiasi arte si evolve in base ai costumi dei tempi. Il nostro ascoltatore ideale resta comunque una persona curiosa che mette la funzione random sulla propria piattaforma di streaming preferita, si imbatte in un nostro pezzo e, affascinato, si ascolta l’EP, venendoci poi a cercare sul web.
Quando avete cominciato a fare musica insieme che progetto avevate in mente?
Lakomb è nato del tutto senza aspettative. Durante la seconda ondata pandemica mi sono trovato a scrivere dei pezzi strumentali senza avere una direzione precisa, con il solo intento di comporre brani che mi piacessero, che partissero da un punto scelto arbitrariamente e si spostassero senza avere una destinazione predefinita.
E poi come si è costruito ed evoluto il vostro progetto nel concreto?
Dopo aver registrato gran parte del materiale mi sono accorto che i brani avevano bisogno di una componente ritmica “umana”. Ho così coinvolto Giacomo Ganzerli – batterista che suona con me anche nella band NeoSoul Stereonoon – il quale, a distanza, ha interagito con i brani già scritti e ha registrato le parti di batteria nel suo studio a Modena. Il risultato ci ha talmente convinti da spingerci a mettere in cantiere degli altri brani. E ci sono anche altri musicisti che si sono detti molto disponibili a partecipare alle prossime registrazioni.
Come avete unito le vostre esperienze artistiche precedenti? In che modo vi siete influenzati a vicenda?
Giacomo ed io veniamo da mondi musicali distanti e simili al contempo. Abbiamo tutti e due una formazione jazzistica, ma entrambi abbiamo avuto esperienze in ambiti musicali più pop, sebbene differenti. Credo che questo nostro approccio “onnivoro” si percepisca nelle registrazioni e sia una delle caratteristiche più appariscenti dei brani. Sicuramente il fatto di lavorare assieme in un contesto musicale come quello degli Stereonoon ci ha favoriti. Essere una sezione ritmica basso e batteria già rodata consente di partire da un’idea di “groove” precisa e sperimentata. Questo ci ha permesso di lavorare a distanza, tra Milano e Modena, e di trovare una sorta di interplay asincrono. A volte era Giacomo ad adeguarsi a certe figurazioni ritmiche già composte ed eseguite da me, altre volte ho riregistrato delle parti di basso adeguandole a figure ritmiche molto interessanti alle quali non avevo pensato in fase di composizione.
Avete intenzione di portare questo EP live?
Una delle prime reazioni, una volta chiuso il mix dell’EP, è stata quella di pensare a come rendere eseguibile dal vivo il nostro materiale. Per quanto la componente elettronica sia molto consistente, l’interazione tra basso e batteria live è già di per sé molto accattivante. Dal vivo le sequenze si intersecano con le parti eseguite dai due strumenti principali, con le tastiere suonate da me in certi punti e con la batteria elettronica di Giacomo. Nella dimensione live i pezzi possono anche dilatarsi e disperdere ulteriormente le strutture che hanno sul disco. Dal vivo la performance jazz si mescola ancora di più con una componente elettronica quasi da club. Questo è il nostro obiettivo ed è ciò su cui stiamo lavorando, sperando di poter portare in giro molto presto il nostro spettacolo.