– di Martina Zaralli
foto di Ivana Noto –
Ripensare al Premio De André 2019 è un po’ ripensare a un’altra vita. La vincitrice di quella edizione era Lamine, nome d’arte di Viviana Strambelli. Quella sera all’Auditorium Parco della Musica di Roma era salita sul palco con la sua onirica “Penna Bic”, facendo capire a tutti di trovarci davanti a un’artista completa. Sarebbe poi arrivato presto un disco, il primo della sua carriera da cantautrice, ma la pandemia – si sa – ha riscritto intollerabilmente la misura del tempo, senza tener conto che c’erano propositi di un futuro prossimo da realizzare. Ci vuole pazienza, dicono. E finalmente il 19 novembre scorso Lamine ha presentato a tutti il suo debutto: “Da soli mai”.
Dalla drammaturgia alla musica. E viceversa. “Da soli mai” è la sintesi del percorso artistico di Lamine, che dalla recitazione passa alla scrittura di canzoni. Un passaggio ben sottolineato proprio nelle immagini che i suoi brani restituiscono: piccoli momenti di sceneggiatura, nei quali le vicende raccontate accadono, come in teatro, come in un film. Puoi vederle davvero. E puoi sentirle tornare nella loro forma di canzone, in una delicata altalena dell’arte.
Sentimenti senza compromessi. Non a caso, Lamine cita la tragedia di Antigone, dalla omonima tragedia di Sofocle, nella sua rivoluzionaria affermazione d’esistenza, rubandone la lucidità adolescenziale di non scendere a patti con la vita, per poi trasportarla in “Non è tardi”, come prima e autentica dichiarazione (in ordine di ascolto) di passione incondizionata verso il suo sentire: «Dobbiamo prendere da noi stessi qualcosa di impossibile per farlo diventare possibile», mi dice al telefono. Per essere d’esordio, “Da soli mai”, è un disco maturo, intrecciato con quei pensieri che svisceri piano, con cautela. Otto brani nei quali si spoglia di ogni comoda sovrastruttura, aperti nelle sue riflessioni solitarie fino all’atomico perché. È un disco di assenze, di silenzi, di cose non dette. Non c’è la voglia (o, dico meglio: l’abitudine) di accontentarsi e di accontentare. Ogni pezzo è curato nel minimo dettaglio, senza la fretta di dover uscire con ritornelli strappalike. Non c’è l’estenuante corsa alle spiegazioni, perché è il mistero che unisce, le persone alle persone, le persone alla musica. “Da soli mai” arriva dopo due anni di lavoro e quattro tour rimandati, scanditi da dubbi pandemici risolti dal buon incontro con l’etichetta Pulp Dischi. Come racconta Lamine: «“Da soli mai” è un disco d’amore», e io aggiungo verso il coraggio di scegliere di sé stessi.
Con “Da soli mai” hai raccolto i tuoi pensieri in un disco. Come ti senti dopo due anni di lavoro?
È come se dovessi andare un appuntamento con una persona che ti piace da morire. Ti prepari, ti metti il vestito migliore, cerchi di fare tutto il possibile per essere al massimo di me, ma poi all’improvviso si ferma il mondo, per un anno e mezzo, nel tuo momento migliore. Mi sento oggi come mi sentivo al Premio De André: non mi aspettavo di vincere. Non ho mai smesso di lavorare, anche se il mondo era fermo. Ho avuto una crisi, a un certo punto, in estate, perché mi sentivo impotente davanti a una pandemia, che rendeva di fatto impossibile dare una forma al mio progetto. Mi sento però che ho lavorato, penso che sto facendo il minimo necessario che ognuno di noi fa quando ama veramente qualcosa. In questo momento cerco di pensarci anche il meno possibile, perché non fa bene compiacersi. Mai. Sicuramente mi dà linfa vitale sapere che ci sono delle persone che riconoscono il mio lavoro, ma per me è un inizio. Sono contenta per le canzoni, più che per me. Adesso hanno il loro spazio nel mondo.
Hai detto di aver avuto un momento di ripensamento, volevi quasi lasciar stare l’idea di fare un disco. Poi cosa è successo?
Ho esitato perché ho avuto una delusione lavorativa molto forte. Una persona era entrata nel merito del progetto, per portarci lontano – in un certo senso – per poi dissolversi nel nulla. Tra l’atro nessuno aveva chiesto aiuto. L’episodio mi ha devastata perché mi sono davvero sentita ingenua, rispetto a un progetto, quello del disco, per il quale non ho mai abbassato la guardia. Non ho accettato di essere stanca e ho continuato a lavorare, ma poi a un certo punto mi sono dovuta fermare. Ho dovuto lottare con la stanchezza, più che con l’idea di mollare tutto. Ho capito che dovevo fermarmi, perché avevo il diritto di essere stanca. Sono andata al mare. Ho deciso di allentare un po’ la presa, soprattutto verso me stessa, dicendomi che non potevo fare tutto da sola. Ho chiamato l’unica etichetta di cui mi fido al mondo, ho sentito da parte loro lo stesso grado di interesse e di amore verso il mio progetto e mi sono fatta aiutare. Ho riscoperto la voglia di stare insieme, dopo troppo tempo da sola, in casa, a scrivere e a leggere, c’era davvero bisogno di una squadra: per questo motivo ho deciso di chiamare il disco “Da soli mai”, doveva chiamarsi il Il codice a barre di me, ma ho voluto rimarcare il passaggio dall’introspezione alla volontà di accogliere gli altri.
«Da soli mai, adesso che nel mondo siamo solo noi». C’è molta solitudine in questa frase…
“Da soli mai” perché siamo profondamenti soli. Non ho mai detto che il disco doveva chiamarsi Il codice a barre di me e dietro la scelta del titolo c’è un concetto importante, che vorrei spiegare. Cioè: per me non è puro pensiero pedagogico “del fare le cose insieme”, ma è riconoscere la genuinità tra le tante solitudini, riconoscere quelli che non sono diventati cinici. Fare le cose insieme, con la consapevolezza che siamo soli. Non è un pensiero triste. È così e basta.
Hai scelto un esordio molto intimo. Ti preoccupa la possibilità di non essere capita?
Per niente. Faccio musica perché non posso fare altrimenti. Poi se mi capiscono allora diventata una cosa pazzesca. Diventa un sodalizio, una conferma, uno dei pochi momenti in cui non ti senti solo. La tua necessità che diventa la necessità, la storia, di un’altra persona, è la sensazione più bella del mondo. Non ho paura di essere fraintesa. L’unica paura potrebbe essere quella di non averci messo tutta me stessa. Quando ho fatto ascoltare ad alcune persone Il codice a barre di me, ad esempio, prima di pubblicare il pezzo, mi dicevano che non capivano bene la canzone. Ma penso che sono proprio le cose che non capiamo, non sappiamo, non diciamo, che arrivano di più a chi ascolta. È ciò che non riusciamo ad “acchiappare” che fa la differenza, che intriga. Come l’amore: ma chi vuole davvero capire l’altro?
Per vedere Lamine dal vivo:
- 2 dicembre – Wishlist (Roma)
- 10 dicembre – Rework Club (Perugia)
- 17 dicembre – Claque (Genova)