– di Ilaria Pantusa –
L’intervista a Leonardo Laviano, voce e chitarra del collettivo torinese, che il 5 febbraio pubblica il secondo disco.
“Questo disco doveva uscire il 5 maggio del 2020, poi a causa della pandemia abbiamo deciso di procrastinarlo a dicembre, anche a dicembre non abbiamo potuto e adesso basta, siamo pronti”, ci racconta al telefono Leonardo Laviano, voce e chitarra dei Lastanzadigreta, collettivo torinese che col disco d’esordio, Creature selvagge, si è meritatamente aggiudicato la Targa Tenco 2017 per la migliore opera prima.
Il 5 febbraio esce il secondo atteso disco, Macchine inutili, che fin dalla copertina, realizzata dall’illustratrice Cinzia Ghigliano, promette originalità, sperimentazione, bellezza e collaborazioni di pregio, come quella con Gigi Giancursi dei Perturbazione, l’arpista e cantautrice Cecilia e gli archi e fiati della Filarmonica Teatro Regio Torino.
Con ExitWell abbiamo conosciuto un po’ meglio le “Macchine inutili” dei Lastanzadigreta.
Perché intitolate il vostro secondo disco Macchine inutili? Quali sono le macchine inutili?
Questo secondo lavoro arriva ormai a 4 anni dal nostro disco d’esordio Creature selvagge, che aveva avuto tanta fortuna, perché siamo riusciti ad aggiudicarci la Targa Tenco del 2017 come miglior opera prima dell’anno, perciò questo ci ha dato una grande spinta e siamo andati avanti così.
Mentre quel primo disco era una sintesi di otto anni di lavoro sui palchi e negli studi, Macchine inutili è nato con un intento completamente diverso. Siamo partiti prima dal concetto e poi ci abbiamo costruito sopra le canzoni.
Macchine inutili è un omaggio all’ingegno e alle opere di Bruno Munari, che settant’anni fa più o meno aveva stilato questa sorta di surreale manifesto ideologico sulle macchine inutili e diceva che in un mondo che sarebbe stato comandato dalle macchine – mamma mia quanto ci aveva preso – ci saremmo trovati un giorno a contemplare macchine che sarebbero state create solo per lo scopo di funzionare fini a sé stesse, quasi come un’opera d’arte. Facendo un paragone, Munari diceva che la macchina inutile si contempla un po’ come si contempla il movimento delle nuvole nel cielo. Quindi da un punto di vista industriale e capitalistico la macchina è inutile, perché non produce nulla, non ha cioè un costo che viene ripagato con pezzi prodotti, ma serve come forma d’arte.
Se ci pensi, tutte le forme d’arte che in questi mesi stanno patendo le pene dell’inferno e un abbandono generale vengono trattate come delle macchine inutili, però non per essere contemplate, ma perché c’è questo tremendo equivoco per cui in periodi di crisi si bada solo alle cose “utili” e tutto il resto passa in secondo piano.
Ci tengo a dire che non è un concept album vecchia maniera: non abbiamo dedicato tutto il nostro lavoro a questo concetto, ma ci è piaciuto, come nome e anche come accoglienza concettuale, contenere le tredici canzoni sotto questo titolo.
Mi puoi raccontare della filosofia della Musica bambina? Come nasce?
Come nasce non lo sappiamo. Ad un certo punto, nel 2018 abbiamo deciso di stilare questo manifesto della Musica bambina, che è una sorta di gioco concettuale. In tempi in cui ricordiamo le fondazioni di partiti o movimenti politici come qualcosa del secolo scorso, noi che per certi versi un po’ vecchi dentro lo siamo, abbiamo deciso di adottare questa modalità.
Cosa dicono i dieci punti in modo non sempre serio? Intanto dicono che la Musica bambina non è una musica per bambini, ma va bene anche per i bambini, perché per le sue caratteristiche di facilità di fruizione arriva subito. Magari, nei casi più geniali, ha una lettura a doppio fondo. Ai bambini serve in un certo modo, agli adulti in un altro.
Come quei libri che possono essere letti ad ogni età e che hanno più piani di lettura.
Esatto. E poi, l’altra peculiarità è data dal fatto di essere musica bambina dal punto di vista dell’approccio emotivo con il “play”. Se ci pensi, in inglese si usa il verbo to play sia per indicare l’azione del “giocare” che quella del “suonare”.
Abbiamo sia nel disco che sul palco un approccio agli strumenti molto giocoso, dovuto anche al fatto che nessuno di noi ha un ruolo preciso. Sebbene io sia un chitarrista e un cantante, poi ci sia un diplomato di percussioni, un mandolinista, noi durante i concerti, ma anche durante le registrazioni, ruotiamo spesso e volentieri sugli strumenti. Questo, oltre ad essere divertente, ci pone spesso nella condizione di non suonare nella nostra zona di conforto. Dove nasce il rapporto bambino?
Innanzitutto, nasce dal fatto che ci misuriamo con grande umiltà. In tutto il disco non troverai un assolo, perché abbiamo scelto di non ricorrere a virtuosismi, perché non è quello il tema. Il tema è suonare con quella giusta cautela, con quella giusta paura di sbagliare che ti fa ascoltare molto di più il suono d’insieme e ti fa fare delle parti semplici.
L’aspetto bambino sta anche nella meraviglia. Noi rincorriamo la sensazione che si prova nell’approcciare per la prima volta uno strumento, nel riuscire a suonare, quando si inizia ad imparare, quel primo accordo di Do maggiore. Ecco, noi rincorriamo lo stupore e la meraviglia sia fra di noi, suonando appunto strumenti coi quali non abbiamo grande confidenza, sia insieme alle persone del pubblico, perché noi, quando possiamo, facciamo suonare loro qualsiasi cosa abbiano a portata di mano, come ad esempio un mazzo di chiavi, le loro sedie, eccetera.
Quindi, oltre a sperimentare a livello musicale, sperimentate anche su voi stessi a livello emotivo.
Assolutamente sì, e questo è tutto riassumibile dentro un concetto molto semplice: se tu mi chiedessi, ad esempio, perché in questo brano hai usato un organo a ventola degli anni ’60 e perché qui hai usato una pentola, io ti risponderei che ad un certo punto noi ci ritroviamo a cercare suoni e questi si cercano, intanto, con quello che si ha a portata di mano. Nei documentari di 50 secondi che si possono vedere sui nostri social, si vede come prepariamo i suoni e i pezzi, e in uno di questi c’è il nostro percussionista che gira con una spazzola e ci strofina cose, fino a che il nostro ingegnere del suono non coglie quello perfetto per quel che ci serve.
Quanto avete seguito la filosofia della Musica bambina nel lavorare su Macchine inutili?
Per noi la Musica bambina non è una filosofia da scegliere, noi ormai siamo così.
Adesso, un po’ per esigenze date dal Covid-19, un po’ perché ci piace, stiamo facendo dei veri live da giardino. Anche se è inverno, ci mettiamo lì con i nostri strumenti, le pentole, gli organi a ventola, un microfono e suoniamo così. Però ci è capitato in alcuni locali, troppo piccoli per tutta la strumentazione, di prendere uno dei tavolini e suonarlo al posto dei tom. Abbiamo suonato con quello che trovavamo anche al mercatino delle pulci di Porta Palazzo a Torino, il Balôn, uno dei più famosi del mondo insieme a quello di Porta Portese.
Ecco, a proposito di questo, nell’ascoltare i vostri dischi, ciò che salta subito all’attenzione è che in primo piano ci sono suoni molto particolari. So che, oltre a ricorrere a strumenti inconsueti, voi li autocostruite. Da dove nasce questa esigenza “artigianale”?
Ognuno di noi si diverte a fare cose: c’è chi costruisce i modellini delle navi, chi i trenini elettrici. A molti noi piace quel tipo di gioco lì. Questo stesso istinto poi nasce anche dal fatto che magari troviamo uno strumento musicale irrimediabilmente guasto, che non conviene riparare, ma inventando un altro escamotage tecnico, magari lo facciamo funzionare in un altro modo. È il caso di una vibraphonette, che è un vibrafono italiano semi portatile degli anni ’50, uno strumento stupefacente e bellissimo, introvabile e con un valore enorme, che ci è stato venduto a poco, proprio perché aveva l’oscillatore guasto. Noi allora abbiamo staccato un motorino da modellismo, realizzato le cinghie e abbiamo poi fatto fare un giro diverso. Adesso funziona.
Anche nei testi ho trovato molta originalità, penso ad esempio a Cavallini, ma anche all’omaggio a Gianni Rodari in Grammatica della fantasia o anche a Spid. Nelle vostre canzoni c’è spazio per parlare di ambiente, Resistenza, amore che lotta con la prosaicità del quotidiano, trappole burocratiche, ma sempre con tono giocoso e leggero.
L’umorismo è Resistenza?
Sì, certo. Partiamo dal fondo: Spid non è nostra, è un regalo che ci è stato dato da Gigi Giancursi, già membro e penna dei Perturbazione, e che abbiamo inciso con lui. È stata una delle cose più divertenti che abbiamo mai fatto, perché lui è anche un personaggio che genera allegria.
L’umorismo è Resistenza e, ti direi di più, la leggerezza è Resistenza.
Vedi, noi abbiamo vinto il Tenco da parvenu, non siamo mai stati codificati in alcun tipo di scena o di corrente. Siamo sempre stati un po’ troppo pop per il cantautorato e un po’ troppo cantautori per il pop e quello che rifuggiamo è proprio la codifica. Macchine inutili, se devo dirti la verità, è nato anche con l’intenzione di fare qualcosa di più pop rispetto al primo disco, ma ad ogni modo, ci sono alcune cose che non vogliamo fare. La prima è codificarci, la seconda, dare delle morali. Ed è da qui che nasce, lo dico con poca modestia, la qualità dei nostri testi che, spero vengano percepiti così, non sono mai eccessivamente didattici, raccontano delle storie, storie semplici, dalle quali ciascuno può trarre le proprie conclusioni in autonomia. Infatti, delle volte, quando ci intervistano, è bellissimo sentire angolazioni diverse dalla nostra che vanno a cogliere significati dei testi a cui noi non avevamo mai pensato.
Ecco, quello che cerchiamo è questo. Siamo un collettivo autenticamente collettivo, le canzoni sono tutte collegiali e quindi i testi vengono limati, controllati, rifatti, rimessi in piedi, guardati da un’angolazione e poi da un’altra, sempre con quest’intento di essere il più equilibrati possibile e di non dare morali a nessuno.
Certo, fin dal primo ascolto si intuisce il messaggio politico, è inutile nasconderlo, però, sai, tra il dire “tu non dovresti sporcare il mare o abbandonare la gente in mare” e raccontare la storia del mare dal punto di vista di un pesce, ecco, noi abbiamo scelto la seconda.
È anche questa complessità che diventa essa stessa politica, quindi è ancora più efficace questo approccio.
È vero, però facilità il compito anche a me che canto, perché il processo del cantautore, quasi sempre, è un canto in prima persona. Ci si mette la faccia. Invece io mi sono trovato e mi trovo molto felicemente ad essere una donna, una bambina, un vecchio, un pesce, e questo fa in modo che chi la canta abbia il giusto rispetto e distacco verso il testo, in modo che arrivi a chi lo ascolta nel modo più pulito possibile.
Non so se mi sono spiegato.
Sì, sì, ti sei spiegato perfettamente. Tra l’altro, questo si inserisce anche in una tradizione cantautorale, se vogliamo, perché quando dici così mi fai venire in mente Paolo Conte, Lucio Dalla, che comunque raccontano storie, interpretano altri personaggi e lo fanno con tutta la libertà che possono permettersi, quindi, tanto di cappello!
Verissimo, verissimo.
Che progetti avete per i prossimi mesi?
Intanto uscire vivi da questa situazione generale sarebbe già un bel progetto, ma questo non coinvolge solo noi, immagino.
Siamo degli animali da palco, quindi, appena aprono i cancelli, noi siamo già sulle pedane a suonare ovunque si possa.
Il progetto è sempre quello di affinare il messaggio musicale sul palco ogni volta meglio e di cercare sinergie con altre forme d’arte. In queste ore stiamo chiudendo il montaggio di un videoclip, che ci vedrà in collaborazione col balletto del Teatro di Torino, che è uno dei corpi di ballo di danza moderna più importanti d’Italia; abbiamo all’attivo già qualche colonna sonora per il cinema, perché ci viene facile risultare visionari anche nelle immagini dei film.
Ci è anche venuta un po’ paura di fare progetti, quindi aspettiamo che ci sia un minimo di via libera per potersi scatenare e uscirne vivi e felici con un disco che speriamo che piaccia.
Per salutarci ti chiedo una riflessione su quello che sta accadendo al mondo della musica e della cultura con la pandemia.
Le “macchine inutili” sono fondamentali per la crescita della coscienza e della cultura di tutti, nella fattispecie dei più piccoli, perché non producono fatturato, non producono beni materiali, ma producono ricchezza mentale. Aver abbandonato tutte queste macchine, ossia il teatro, il cinema, il comparto musicale non è una colpa, ma è una ferita che a rimarginarla ci vorrà veramente tanto tempo. Io spero nella volontà e nella lungimiranza delle famiglie, degli insegnanti, dei direttori artistici di teatri, cinema e dei posti dove si suona, che appena sarà possibile possano recuperare quanto perso di bellezza e di sensibilità e di cultura interiore nelle giovani generazioni. Prendetevi cura delle “macchine inutili”, non solo di quelle de Lastanzadigreta.
Progetto musicale assai Interessante Bella intervista.
Massimo