Chicco Bedogni con i suoi AmpRive ha tradotto per lungo tempo la musica che aveva dentro in un rock di contaminazioni post industriali. Poi un contrattempo di salute alle corde vocali, poi la pausa e poi ancora una nuova dimensione, solista, solitario, da anima folk, da lupo solitario. Semplice e pulito, dopo numerosi live set tra Italia e Giappone, ecco un Ep davvero affascinante. Sono 6 nuove scritture chiuse dentro un lavoro dal titolo “To the Moon” perché è alla luna che l’uomo da sempre volge lo sguardo e si lascia ispirare. Ed è proprio dall’altra parte del mondo che Chicco Bedogni – che da ora chiameremo Lupo – prova e compone e registra con Luca Serio Bertolini dei Modena City Ramblers. Quel che è venuto fuori è un ascolto delicato, prezioso, intimo e sotterraneo. Un Ep di 6 scritture che accende l’appetito. E tra qualche arrangiamento più elaborato fino a trovarci di fronte registrazioni in presa diretta di voce e chitarra e armonica a bocca, questo disco non la smette più di girare. Dura troppo poco caro il nostro Lupo…
Qualcuno come me direbbe: finalmente si torna a fare del folk. E tu ci sei andato nel mondo del folk, oggi dopo anni di rock industriale. Come ti trovi? Ci resterai?
Diciamo che questo approdo arriva dopo anni di “frequentazione” del genere, per lo meno tra le mura di casa. Il folk acustico è il rifugio ideale per chi come me è affascinato dalla dimensione “artigianale”, o “suonata” della musica. Credo che il passo successivo sarà un disco più ritmato che accoglierà sonorità elettriche (ma non elettroniche…), sempre sul “filone” folk. Il fascino della musica cantautorale tra i ’50 e i ’70 per me è ancora fortissimo.
Un Ep nuovo di zecca. Un disco intero in arrivo?
Questo per me è il grande dilemma: continuare con un nuovo Ep o azzardare un LP? Cominceremo a parlarne tra non molto con Riff Records e con Hiroshi di GrandTreeHouse Records: ho già tanto nuovo materiale su cui lavorare…
Italia e Giappone. Che insolita accoppiata per far nascere del folk americano… non trovi?
Hai ragione: ci ho ironizzato più di una volta sia in Italia che in Giappone. Diciamo che entrambi i paesi, tra gli sconfitti del secondo conflitto mondiale, hanno condiviso una sorta di “colonizzazione culturale” da parte degli USA. La musica Jazz e il Blues si sono diffuse quasi con prepotenza a livello popolare anche grazie all’occupazione americana e lo strabordante afflusso di produzioni americane (musicali, cinematografiche…) ha fatto il resto.
In realtà questo genere ha tantissimi estimatori in entrambi i paesi, specialmente in Giappone. A questo proposito vorrei raccontarti un episodio: a marzo mi è capitato di suonare ad Asakusa in una incasinata libreria musicale (posto magnifico) in jam session assieme ad una piccola folla di musicisti inglesi, americani, australiani e giapponesi. Alternavamo pezzi originali a vecchie ballate inglesi e americane. Lì ho sentito la forza che il folk ha nella cultura anglosassone e quanto universale sia il suo linguaggio. Eravamo un mix improbabile di giovani e di vecchi, musicisti di professione e totali dilettanti ma chi eravamo non importava perché nell’esecuzione collettiva diventavamo un tutt’uno. Grazie alla musica (folk) eravamo semplicemente uomini.
Ed un’altra strana coppia è quella di Cesare Pavese e Alan Lomax. Che lingua parla questo disco e che faccia ha secondo te?
Sono due riferimenti fondamentali per me: il primo per la condizione esistenziale che descrive, il secondo per la visione radicale della musica e dello sfruttamento della popolazione afroamericana. Due splendidi autori, profondamente politici.
Il disco ha il volto di un italiano della provincia del nord Italia e canta con la cadenza un po’ trascinata dei songwriter nati sulle rive del Mississippi.
Dall’Italia che cosa hai preso invece? Perché non penso ci sia niente di Giapponese…
In effetti l’unica cosa giapponese del disco sono le chitarre che ho usato per registrare, o meglio, sono americane ma le ho comprate a Tokyo.
Di italiano ho ascoltato tanto i cantautori e sono un grande appassionato di sintetizzatori, organi e stringmachine marchigiani degli anni ’70.
Il video di lancio è questo brano dal titolo “Slow Big Crunch”. Ho ripensato molto alla figura dell’uomo in questa vita…
In effetti questo è il brano più pessimista del disco. Ti sbatte in faccia in maniera molto laconica, quasi violenta, due considerazioni spietate su chi è l’uomo e cosa rappresenta nell’universo. Dice: “We call right what is wrong, ain’t no feeling, just like drones… at the bottom of the stars, this is where we are, here we are”… e poi ancora: there’s no rise, and there’s no fall, the growth is blowing down the globe…”.
Il video gioca proprio sul contrasto tra questo messaggio privo di speranza e le immagini della missione più straordinaria mai realizzata: la conquista lunare, il più evocativo simbolo del progresso umano.
A chiudere: l’America di questo folk accoglierà mai questo disco? E come secondo te?
Quello sarà l’ultimo tassello del puzzle ma in America bisogna arrivarci preparati: ho avuto modo di suonare con musicisti americani e posso dire che quando suonano quelli non scherzano…