– di Giacomo Daneluzzo –
Max Elli è un chitarrista, cantante, produttore e cantautore, oltre che insegnante presso il rinomato CPM Music Institute di Milano. Ha lavorato, nella sua carriera, con alcuni dei nomi più famosi del panorama pop italiano, tra cui Nek, Cesare Cremonini, Jovanotti, Gué Pequeno, Chiara Galiazzo, Mahmood, Tommaso Paradiso e Jack Jaselli.
Originario di Milano, dove vive e lavora, ha calcato molti palchi in Italia e all’estero, ha prodotto e suonato la title track del film L’estate addosso di Gabriele Muccino e la colonna sonora delle due stagioni di Braccialetti rossi per la Rai. Esordisce ufficialmente come solista nel 2018 con l’album “Get the Love You Want” e nel 2020 pubblica i singoli “Vivere o morire”, seguito da “Le montagne” e dal più recente “L’equilibrio delle cose”, usciti tutt’e tre per Greylight Records.
L’ho intervistato per parlare del suo lavoro e del suo percorso artistico e l’ho trovato una persona estremamente competente, gentile e alla mano. Ecco che cosa mi ha raccontato!
Hai lavorato con molti artisti noti del panorama pop italiano. C’è qualche differenza tra scrivere e comporre per altri artisti e farlo per te?
La partenza di tutto è identica: quando scrivo parto sempre da una scintilla, un’intuizione, una frase, una riflessione, oppure da un giro musicale. Non c’è differenza nell’inizio, ma dopo, magari a brano finito, mi accorgo che è qualcosa che mi sta più addosso, che riesco a sostenere da solo, oppure che è qualcosa che non mi rappresenterebbe o che io riuscirei a rappresentare.
Negli ultimi anni c’è stata una sorta di rivalsa degli autori: molti artisti già noti si sono avvalsi di autori provenienti dal mondo indie/itpop, come Calcutta, Gazzelle Tommaso Paradiso e altri. Che cosa ne pensi?
Sicuramente ci sono molti fattori che hanno portato a questo fenomeno; quelli che hai nominato sono personaggi che hanno, in qualche modo, ripreso il cantautorato e che l’hanno portato in una dimensione più moderna, più attuale, a livello di tematiche, ma sempre con dei rimandi al passato: le sonorità ricordano i cantautori pop degli anni Ottanta. Come spesso capita altri, quindi, hanno cercato di avere una visione magari un po’ più fresca di questo mestiere.
Questi ultimi brani, “Vivere o morire”, “Le montagne” e “L’equilibrio delle cose”, mi sembrano, dal punto di vista dei testi, molto riflessivi, esistenziali. Quale pensi che sia la cifra stilistica di questo progetto in italiano?
È sempre difficile auto-definirsi: ovviamente uno riesce sempre a essere molto lucido quando parla degli altri, poi quando tocca a se stesso… Hai centrato dicendo che nei testi cerco di partire da qualcosa che mi sta dentro – e questo si ricollega al fatto che io ritengo affini determinate cose, che quando scrivo mi tengo per me. Sono ragionamenti, riflessioni, che vivo sulla mia pelle, quindi cerco di mantenerli in quella linea più che raccontare delle storie.
Hai delle influenze dal punto di vista dei testi?
Per quanto riguarda i testi sono sempre molto critico con me stesso. Lo sono in generale, in realtà, ma dal punto di vista autorale sento proprio l’esigenza – e quasi il dovere – di riuscire a essere consistente. Non è mai semplice riuscire a trasportare nella metrica di un brano un sentimento.
Ho dei cantautori di riferimento che sono giganteschi e mi fa male solo nominarli in corrispondenza a me: Fossati, De Gregori, Fabi, Gazzè… E tanti altri. Sono tutti artisti che con le parole hanno fatto la storia ma soprattutto sono riusciti a creare brani ed emozioni incredibili. Sono maestri.
E musicalmente? Non ho potuto fare a meno di notare il vocoder à la Bon Iver che hai usato…
Bon Iver è uno dei miei artisti preferiti di questo periodo, mi hai beccato! Ha iniziato a piacermi il vocoder proprio da lui, mi hai proprio beccato.
Musicalmente mi piace molto giocare con i sound e tirare fuori anche la mia “parte chitarristica”, che è il mio mestiere, il mio strumento principale sui palchi e in studio, quindi rimane nei pezzi e nelle produzioni. Mi piace fondere il mio lato più da produttore e musicista con quello più cantautorale, giocando sempre con i sound.
La cosa che voglio fare è coniugare le melodie e le mie influenze musicali con le cose che vorrei dire.
Tu sei di Milano, come me. Quale pensi che sia, in questo periodo, il ruolo di Milano all’interno della discografia italiana? E come sta la scena milanese, se ce n’è una?
Milano è una città veramente controversa da questo punto di vista. È la mia città, una città meravigliosa. Ma sta cambiando. Aveva un sacco di spazi, in passato, e ne ha persi tantissimi già da prima della pandemia; con il COVID la situazione è peggiorata ulteriormente.
Al momento non vedo nessuna scena milanese. Vedo scene da altre parti, in Italia, ma non a Milano. La scena milanese è da ricostruire: ci sono artisti che sembrerebbero far parte di una scena milanese ma che in realtà sono artisti che vengono qui a studiare o a lavorare e che fanno parte di altre scene. Nella scuola in cui insegno ne sono usciti alcuni, tra cui Mahmood, ma sono tutti artisti che hanno già altri background e altri stimoli.
Milano potrebbe offrire molto di più: una volta qui c’erano molti locali, dei poli in cui le persone crescevano e facevano esperienza. Ora magari ci sono delle scuole che prima non c’erano, ma quei posti non ci sono più. Spero che si possa cambiare registro e che Milano possa tornare a essere un luogo in cui non ci sono solo le sedie dei discografici, ma anche i poli creativi, le cantine delle sale prova e i locali fumosi. Adesso secondo me bisogna ricostruirla, questa cosa.
Il tuo primo album ufficiale da solista è “Get the Love You Want”: come mai hai operato questo passaggio dall’inglese all’italiano?
È una questione soprattutto di sound. In passato avevo in mente un certo tipo di sound e mi divertivo a scrivere in quel modo, quindi avevo bisogno di poter rispettare il sound che avevo scelto: con l’inglese era più semplice. I testi erano delle storie e sono contento anche di quei testi, ma erano più che altro qualcosa di contorno alla musica, una parte di quel sound. Poi ho deciso di fare questo salto e di scrivere i testi nella mia lingua, per poter andare anche più in profondità.
L’atto creativo spesso parte dalla musica, da giri che mi vengono in mente. Alcuni di questi pezzi in italiano, però, sono nati da parole o frasi. A volte faccio dei freestyle in italiano e mi accorgo che sto parlando di qualcosa.
Molto interessante, è un approccio più da rapper.
Faccio dei freestyle melodici, cantando, come un flusso di coscienza. Poi viene fuori ciò di cui sto parlando. È una roba un po’ mistica, ma succede.