– di Riccardo De Stefano –
C’è un certo piacere nel godere delle cose banali. E anche delle cose semplici. E non sempre è detto che “banale” e “semplice” coincidano.
In questi tempi incerti poi, costretti a non dare più nulla per scontato, abbiamo imparato a ripensare al valore di questi due aggettivi. Molto di quello che prima chiamavamo quotidianità, sembra oggi straordinario; così, anche il gesto semplice di godersi un concerto dal vivo è diventato un evento eccezionale. Per quanto si debba scendere a compromessi con regolamenti più o meno stringenti, niente può eguagliare l’emozione di assistere ad un live. Chiaro, l’esperienza è ancora necessariamente stemperata nelle lunghe file per entrare, nei controlli per il Green Pass, nel distanziamento sociale, i posti a sedere ridotti e, perché no, anche nell’ansia di arrivare al termometro con la temperatura corporea sotto i 37 gradi.
Eppure, niente come l’esperienza diretta – l’happening – potrà mai ridare indietro la stessa sensazione che si prova stando sotto a un palco.
E non è banale assistere all’ultimo concerto di un tour estivo (non lo è più, perlomeno). Così, vedere Motta chiudere il suo tour a Roma, “casa”, come dice lui, toscano di nascita ma romano d’adozione, diventa qualcosa di unico.
Venerdì 10 settembre si è chiuso il tour di “Semplice” e la cavea dell’Auditorium Parco della Musica non sembra un compromesso, quanto lo spazio ideale per accogliere le nuove e ormai vecchie canzoni del repertorio, grazie alla sua naturale eleganza.
La band è ammodernata rispetto al passato, ma non ha perso nulla in potenza ed efficacia, sempre ruotante intorno i due perni di Cesare Petulicchio alla batteria e Giorgio Maria Condemi alla chitarra, con i piacevoli innesti di Carmine Iuvone al violoncello, Matteo Scannicchio alle tastiere e Francesco Chimenti al basso.
Lo show si divide in due parti, con la prima sezione dedicata ai nuovi brani dell’ultimo disco, “Semplice”, forse figlio della enorme messa in pausa della vita del lockdown e per questo dai ritmi più morbidi. E perfettamente godibili: “A te” è l’opener perfetto e “E poi finisco per amarti” assume la dimensione dell’inno nel contesto del palco.
I brani di “Semplice”, probabilmente, sono i migliori dal punto di vista del songwriting e raggiungono il momento di massima intimità con “Qualcosa di normale”, cantata in duetto da Motta con la sorella Alice, ospite dello show e già collaboratrice del cantautore toscano ai tempi dei Criminal Jokers.
Il punto di contatto tra il vecchio e il nuovo avviene con l’ultimo brano del disco, “Quando guardiamo una rosa”, dagli ampi spazi melodici ed emotivi, che scivola e collassa – come nel disco – in un lungo strumentale che si gonfia ed esplode in una ipnotica jam psichedelica, coraggiosamente spinta ben oltre la limitata capacità d’attenzione dell’indie boy medio.
È il ponte che ci fa accedere alla seconda parte dello show, dedicata ai brani dei dischi precedenti, in particolare quelli de “La fine dei vent’anni”, ed è proprio nella title track che lo show trova la ripartenza.
Sulla scia di quanto fatto negli ultimi anni, i brani “classici” non vengono semplicemente adagiati sul palco come oggetti inermi per gli spettatori, ma sono costantemente elettrizzati, accelerati e deformati per dare loro una vita nuova ad ogni esecuzione. Si può fare, e fortunatamente qualcuno lo fa: le canzoni si allungano in jam strumentali e psichedeliche, in ipnotici balli tribali a volte più vicini all’industrial che al cantautorato nostrano, riuscendo a colpire allo stomaco il pubblico, per nulla intontito dalla lunga attesa di questi mesi senza live, ma anzi forse ancora più carico.
E va detto che Motta, tecnicamente sottovalutato dall’opinione pubblica, canta ora meglio che mai. È capace di salire e scendere senza apparente difficoltà per tutto il registro canoro, con l’abilità di non trasformare l’esibizione in un freddo compitino. Anzi, Motta è e si riconferma il cantautore “dei sentimenti”, che emergono nonostante la massa importante di suoni e distorsioni messa in campo.
Il momento più struggente viene con “Mi parli di te”, la toccante ballata in tempo di valzer dedicata al padre, in piedi tra il pubblico ad applaudire il figlio mentre l’emozionante esibizione si risolve nell’abbraccio collettivo dei musicisti.
Nel sali-e-scendi di dinamiche e sentimenti sopra e sotto il palco, alla fine è Motta ad invitare il pubblico prima ad alzarsi e poi a raggiungerlo in prossimità del proscenio, piegando le regole della burocrazia in termini di assembramenti per gli ultimi due bis finali, la splendida “Quello che siamo diventati” (dedicata alla moglie Carolina Crescentini, come sempre presente in prima fila) e l’adagio chitarristico di “Abbiamo vinto un’altra guerra”, che vede Motta salutare commosso il proprio pubblico, facendogli affermare come “l’ultimo concerto di un tour mi lascia malinconico, oggi invece sono solo felice”.
La felicità è un sentimento semplice, e per questo perfetto. A presto e grazie per tutto. Ti vogliamo bene.