di Gianluca Grasselli.
Sono le 17:00, il sole a Barcellona sembra essere più vicino che altrove e l’area stampa del Primavera Sound è affollata come quella concerti, ma più piccola.
A coprirci c’è un solo e timido ombrellone. Manca poco all’inizio della giornata d’apertura di questo immenso festival che ospiterà artisti come: Nick Cave & The Bad Seeds, Bjork, The War on Drugs, Grizzly Bear, The National, Arctic Monkeys e così tanti altri che non basterebbe una pagina intera a contenerli.
Gli italiani ci sono, come sempre, e non solo tra le file dei banconi Heineken, ma anche sui palchi di questo Primavera. All’ombra di quell’ombrellone, circondato da molte lingue diverse, abbiamo intervistato Cesare Basile per parlare di dialetto siciliano, di anarchia e del suo ultimo disco “U fujutu su nesci chi fa?”, album di riconciliazione, di spiritualità e rabbia.
Gli artisti nostrani nelle line up dei festival fuori dall’Italia sono realtà che cercano di avvicinarsi quanto possibile a suoni e stili internazionali a cominciare dal cantato in inglese. Poi c’è Cesare Basile che presenta al Primavera Sound il suo ultimo disco “U fujutu su nesci chi fa?” cantato interamente in Siciliano.
Cosa ti fa pensare che il siciliano non sia una lingua internazionale? Nasce da secoli di dominazioni, contaminazioni ed incroci di razze, lingue e culture differenti.
Effettivamente, ma come sei arrivato alla scelta di cantare in siciliano e come ha influenzato il tuo modo di cantare?
Il mio lavoro sulla lingua è iniziato nel ’94 col mio primo disco solista “La pelle” in cui cantavo una canzone nel mio dialetto. Ma è solo di recente che il siciliano ha iniziato a rappresentare una forte riconciliazione con la mia terra e le mie origini.
Molti anni fa scappai bestemmiando dalla mia Sicilia, costretto ad emigrare come molti, anche se per fare il musicista. Maturai un astio ed una rabbia nei confronti della mia terra che poi, grazie all’esperienza, ho imparato a rivolgere non più verso di Lei, ma verso quelle persone che l’hanno resa luogo d’emigrazione
E oggi questa rabbia c’è ancora?
La mia musica non potrebbe esistere senza una componente di rabbia e anche se declinata in maniera diversa c’è e ci sarà sempre.
Quando penso alla musica folk, quella legata al territorio, in particolare del Sud Italia, penso al legame importante con spiritualità e rito magico. È presente nel tuo ultimo disco un elemento rituale o spirituale se non proprio religioso?
L’aspetto rituale della musica è quello che più di tutti voglio approfondire in questo momento nel mio percorso artistico. È attraverso la ricostruzione di uno spettacolo rituale che si può ritrovare il vero senso della funzione della cultura.
E quale sarebbe la funzione della cultura?
Generare e sviluppare azioni che vadano di pari passo con la tua volontà. Dobbiamo allontanarci dalla recente funzione rappresentativa dell’arte, quasi nostalgica, del “sarebbe bello se fosse così”. La cultura è trasformazione in divenire.
Tornare ad agire in un periodo di stasi stagnante in cui tutto sembra avvenire solo sui social network non riesce ad essere controcorrente quanto definirsi anarchici nel 2018, come fai tu. Ma cosa significa anarchia e che valore ha?
Io non mi definisco anarchico, lo sono. Non esiste ricetta per diventarlo, ma cerco sempre di combattere il principio di autorità partendo da me stesso, senza doppi giochi, partendo dalla mia interiorità, da quello che sono e dai rapporti che ho con gli altri. Queste sono le condizioni per gettare i semi e sperimentare l’ordine anarchico in questa comunità.
Può esistere ancora nella generazione degli anni ’00 o andrà svanendo inesorabilmente?
L’anarchia non è qualcosa che attraversa una generazione, si è definita, sviluppata, nominata, ridefinita, rinominata nel corso degli anni e così sarà. Non è un fenomeno determinato e non corre il rischio di crollare su se stessa e per questo è una risorsa per tutti quelli che hanno voglia di rischiarla.
Mi ricollego al titolo del tuo album “U fujutu su nesci chi fa?”, in italiano “Se esce il pazzo che succede?”. Ecco, cosa succede se esce il pazzo?
U fujutu è il matto nei tarocchi siciliani, una forza anarchica e dirompente priva di definizioni, l’imprevisto conseguente alla messa in discussione dell’autorità. Ti spinge alla reazione e quindi all’azione, a prescindere.
Parlando di musica dal vivo, sei accompagnato da I camminanti, come lo definiresti un vostro live show?
Siamo una band che suona gli strumenti del rock and roll che riesce a fare delle tarantelle con ottimo spirito punk.
E della musica italiana di oggi cosa ne pensi?
Non è un giudizio di merito, ma sinceramente non me ne frega un cazzo.