L’Ego è il male di sempre. Il pensiero emozionale, quelle che crediamo premonizioni o i perenni naufragi dentro il tempo passato. Riccardo Morandini ha sempre indagato con filosofia e trasparenza l’anima e le sue architetture e lo ha fatto sin da quell’Ep dal titolo “Eden” che troviamo anche in vinile. E certamente in vinile deve uscire anche questo “Il leone verde”, registrato e prodotto artisticamente con Franco Naddei dentro il tempo analogico de L’Amor Mio Non Muore. Eppure le impalcature di questo lavoro hanno il sapore del futuro per quanto il futuro sia lontano anni luce. Si ascolti il brano “Sole dei sensi” che trovo alto nel suo incastrare dissonanze, progressioni sghembe e soluzioni raffinate dentro un moto armonico di semplicità. E se le ombre del Battiato ispirato e ormai saggio sono ovunque, Morandini ha sicuramente portato alla luce un disco importante, di un ascolto prezioso. Il qui ed ora. Hic et Nunc….
Riflessione sull’uomo. Riflessione su noi stessi, sulla nostra natura. Ti ha sempre rapito questo obiettivo nelle indagini delle tue canzoni, vero? Posso chiederti perché?
Accanto alla musica, mi sono sempre interessato alla filosofia, anche nelle sue declinazioni più spirituali e “mistiche”. Fino a un paio di anni fa ho vissuto questi due ambiti separatamente, la dimensione cantautorale mi ha permesso di conciliarli in un’idea di “canzone filosofica”. Non a caso se dovessi scegliere un cantautore classico, Battiato è quello a cui mi sento più vicino. “Emanciparsi dall’incubo delle passioni, cercare l’Uno al di sopra del bene e del male”, per me è un verso meraviglioso e sono questi i temi che mi accendono e che amo trattare. A volte possono essere più “assoluti”, a volte più calati nella contemporaneità (come “La sindrome di Erasmo” nel mio primo EP). Se mi confronto con delle musiche più leggere e ironiche, può sorgere il timore che i miei testi risultino pomposi e antipatici, ma penso di essere onesto e di trattare semplicemente le tematiche che mi interessano, che potranno essere apprezzate da un pubblico con interessi simili.
Dall’io centrale di questa società ad una dimensione di io nel mondo che ci circonda. “Il leone verde” l’ho trovato un disco molto buddhista… che ne pensi?
Sono d’accordo, il filo conduttore del disco è la liberazione dall’ego, tema centrale nel buddhismo (ma anche nel sufismo o nelle correnti mistiche del cristianesimo). Personalmente ho sempre trovato molto stimolante la letteratura sacra indiana (le Upanishad, la Gita). Ha un approccio più vicino alla filosofia rispetto ai monoteismi del Libro (nella loro versione essoterica) e i principi del misticismo procedono quasi da verità logiche. Penso che la popolarità del buddhismo nel mondo contemporaneo (dagli anni ’60 in poi) si debba al fatto che parla dell’illusorietà dell’ego, del suo essere qualcosa di fluido, figlio dell’interconnessione. Anche solo questo pensiero ci solleva un po’ dai dolori dell’ego. Che poi fondamentalmente nascono da due ambiti molto banali: il lavoro e l’amore (non a caso i temi classici per cui ci si rivolge alla divinazione). Ultimamente soprattutto il primo, dato che il lavoro ha sempre più relegato l’amore ad un ambito strettamente razionalizzato e controllato, dove non può nuocere alla produttività. Con la realizzazione lavorativa quale unico orizzonte, “Io” sono il mio ruolo e il successo o il fallimento ad esso legati. Una filosofia che ti mostra quanto sia illusorio tutto ciò è di grande aiuto.
Oltre a questi pensieri molto consolatori, ma astratti, penso siano essenziali certe pratiche altruistiche di “compassione” (più vicine alla nostra cultura cristiana, rispetto ad esempio alla meditazione). Mi è capitato ultimamente di lavorare nell’ambito dell’educazione e dell’infanzia, in ruoli che tra l’altro sono quasi sempre appannaggio del “femminile”, per via di ottusi stereotipi culturali, e devo dire che la cura, la dedizione all’altro, soprattutto se in posizione di dipendenza, aiuta molto a liberarsi dalle idiozie egoistiche e narcisistiche di chi si identifica in un ruolo “artistico”.
E qui impera su tutte forse “Sole dei sensi”… forse più che in altrove torna il concetto di cui dicevo prima. Il suono in tutto questo diviene sempre molto cadenzato, cantilenante… come un mantra… sbaglio a leggerne così il suo ruolo?
Non sbagli, nel Sole dei sensi c’è un riferimento alla Bhadavad Gita, uno dei testi fondanti dell’induismo. Nel racconto, Krishna invita Arjuna, guerriero combattuto moralmente per il fatto di essere coinvolto in una guerra fratricida, ad agire senza preoccuparsi del “frutto dell’agire” (espressione che compare nel testo del brano), degli obiettivi, delle conseguenze, ma a rendere sacra l’azione dedicandola al divino, cosicché non si carichi del fardello karmico, ma sia libera. Mi ha sempre molto affascinato questo concetto, per quanto quasi utopico nella sua realizzazione e in particolare nel “Sole dei sensi” lo riferisco a quei rari ed ispirati momenti che si possono sperimentare in musica, ma anche in altre forme d’arte/artigianato, in cui l’azione è quasi automatica e si “sparisce nel fare”, senza l’ansia dell’obiettivo, del terminare qualcosa, dell’ultimare un prodotto destinato ad un pubblico. Semplicemente si è totalmente immersi nel processo ed è quello che conta, non il risultato finale, non la fruizione, ma il fare in sé.
L’analogico de L’Amor mio non muore ha un peso, una simbologia, un riferimento spirituale in tutto questo? Oppure una semplice lettura estetica del suono?
La scelta di registrare all’Amor mio non muore nasce innanzitutto dall’amicizia di lunga data con i soci fondatori e dall’ottimo clima umano che si respira. Per quanto riguarda la strumentazione, un fiore all’occhiello è il vasto compartimento tastiere, che offre una miriade di possibilità timbriche. Sia per quanto riguarda le tastiere che per gli echi, i riverberi, i compressori etc., il fatto di lavorare “girando delle manopole” di macchine analogiche, rende l’approccio alla registrazione più fisico e intuitivo (e piacevole) rispetto all’astrattezza del fare tutto “in the box”.
Parlando di filosofia della registrazione, l’Amor mio nasce (e tuttora può essere utilizzato) con un approccio purista: registri direttamente su nastro, niente editing e ci si tiene le imperfezioni. Questo sia perché i musicisti siano spronati ad arrivare in studio preparati, “come una volta”, sia perché l’eccessivo perfezionismo in fase di editing, oltre ad essere snervante, spesso raffredda il risultato finale: un discorso musicale fatto in un’unica take sarà più coerente e comunicativo rispetto al frutto di un collage di frammenti.
In realtà il mio disco è stato registrato prima in digitale e in un secondo momento passato su nastro per dargli il calore caratteristico dell’analogico e spesso le produzioni più “pop” dell’Amor mio, che prevedono molte sovraincisioni seguono questa modalità ibrida. Tuttavia l’approccio rimane e si cerca sempre di limitare le take e di privilegiare l’unitarietà rispetto al perfezionismo e all’eccesso di pulizia. Se vogliamo aggiungere un velo di misticismo a tutto ciò, mentre nel digitale si ha a che fare con riduzioni numeriche del suono che per quanto infinitesimali saranno sempre discrete, quando giri una manopola su un macchinario analogico fai un movimento continuo: tra una posizione e l’altra c’è l’infinito.
Un disco che arriverà dunque anche in vinile?
Purtroppo sono arrivato un po’ in ritardo e ultimamente i tempi di stampa sono piuttosto lunghi, ma sarei felice di stampare un po’ di copie entro settembre per rilanciare la promozione dopo l’estate e anche per il piacere personale di avere la copia fisica.