Disco di inediti in studio per Maurizio De Franchis in arte RIO dal titolo “State of Mind” che segna un approdo da solista di ampia maturità e grandissima eleganza dopo una carriera di celebri collaborazioni, come Gianni Bella o Tony Esposito. Un lavoro di un gusto internazionale alto, di rimandi preziosi alla letteratura di Stevie Wonder (tra gli altri) come di tutte quelle colonne portanti del grande soul mondiale. “State of Mind” è lavoro di raffinato mestiere senza alcun tipo di trasgressione che possa uscir fuori da un cliché artistico ampiamente riconoscibile… ma è anche un disco di necessità umana, di confessioni e di verità. Un disco che ha preso vita tra Napoli, Palinuro e Miami in cui l’amore regna sovrano anche nel bellissimo video di lancio diretto da Mattia Di Tella per il singolo “She Will Come”: un mondo in bianco e nero dove spicca e fa da collante narrativo il perenne equilibrio spirituale tra tristezza e ironia che solo un clown sa rendere possibile con semplicità e naturalezza. Le righe della scena indie italiana non è solo figlia delle mode digitali ma spesso non perde occasione di celebrare le grandi origini che hanno fatto la storia che ancora oggi contamina generazioni di nuovi artisti.
Partiamo da un concetto che in fondo è radicato dentro il soul che ti appartiene: quanto ha contato per la scrittura di questo disco lavorare da solo piuttosto che in team? Quanto spazio hai potuto dare a te stesso pienamente?
Non so come tu abbia fatto a capirlo ma quella di comporre e lavorare da solo è il solo modo che conosco. Devo però anche dire che nella fase realizzativa di ogni singolo brano mi sono avvalso della preziosa collaborazione del mio produttore artistico Gino D’Ignazio e conseguentemente dei musicisti che hanno dato il loro splendido contributo. Colgo l’occasione per ricordarli. Aurelio De Stefanis alle Chitarre, Sergio Orso tastiere e organo, Giancarlo Ippolito e Sergio Di Natale alle batterie e Giorgo Savarese nei missaggi e coarrangiatore in: If you let me say. Mi sono dato tutto lo spazio di cui questo progetto aveva bisogno e il tempo che ho lasciato scorrere senza ansie traendo da esso ispirazione e riflessioni su cosa era giusto mettere piuttosto che togliere, credo sia stata una delle mie migliori intuizioni.
Mi colpisce sempre, soprattutto oggi, epoca di grande contaminazione in ogni direzione, l’ascolto di un disco come “State of Mind” che afferra e si tiene stretto a radici assai classiche. E lo fa con grande mestiere, celebrando con rispetto un passato glorioso. Qual è la tua ragione? Come hai saputo evitare che l’elettronica e le nuove mode contaminassero il tuo suono?
Era inevitabile l’uso di strumenti acustici per il tipo di composizioni che ho proposto. Le contaminazioni, proprio per quello che ho appena detto, non hanno potuto interferire.
“State of Mind” mi riporta nell’America di Steve Wonder, anni ’60 – ’70 – ’80… mi riporta al futuro dei sentimenti e ad un certo romanticismo di lusso. Tu dove sei tornato con la mente e con il cuore?
Musicalmente, con la mente ero più o meno in quei pressi temporali che hai citato tu. Con il cuore, invece ho vissuto, per quel che riguarda i testi, emozioni e patimenti direttamente sulla mia pelle. Del resto, noi altri, il più delle volte viviamo solitudini che tormentano l’anima
Dall’Italia? Che tipo di ispirazione hai avuto?
La migliore che potessi avere. Gino D’Ignazio, produttore artistico di “State of mind”, mi propose di registrare l’album, batterie a parte, nel suo studio di Palinuro completamente immerso nel verde. È in questo luogo incantato, governato dal silenzio, dove l’ispirazione e una ritrovata serenità d’animo mi hanno permesso di realizzare tutto quello che musicalmente avevo nella mente e nel cuore.
Finalmente il primo video in rete. Immagine, suono… questo bisogno che abbiamo tutti di apparire… il ritorno al passato è un po’ un modo per scappare da tutto questo e tornare dove ogni cosa aveva ben altri significati?
No, io non scappo nel passato anche se allora, come dici tu, ogni cosa aveva ben altri significati. Piuttosto traggo da esso ispirazione che ha lo scopo di evolvere in chiave moderna quello che musicalmente propongo.
A chiudere: quando e perché Maurizio De Franchis diventa RIO?
Il nome d’arte Rio l’ho assunto quando facevo parte dei “Sould Out”. Il motivo è semplice. Prova ad immaginare un’inglese che deve pronunciare Maurizio de Franchis. Così scelsi questo nome un po’ perché ispiratomi da un film di Brando e anche perché è contenuto nel mio nome. Probabilmente quello dell’impronunciabilità del mio nome da parte degli inglesi, è soltanto una mia fantasia.