– di Assunta Urbano –
La prima volta che ho “visto” ed ho sentito parlare di Davide Shorty è stato alle audizioni della nona edizione di X Factor nel 2015. È salito sul palco portando una sua personale versione di “Iron Sky“, brano incisivo e indimenticabile di Paolo Nutini. Pensai di avere davanti a me – con il piccolo schermo a separarci – il vincitore di quell’annata del talent show. Arrivò terzo, in realtà, ma non mi sbagliai di molto. Di certo c’è che da quel momento, dato il suo enorme talento, è stato difficile dimenticarlo.
Cuore palermitano, routine londinese, musica che gli scorre nelle vene. Nel corso della sua carriera ha firmato vari lavori originali, tra cui quello da solista Straniero del 2017. Dall’anno successivo ha iniziato a collaborare con il collettivo torinese Funk Shui Project, con cui ha realizzato i due dischi Terapia di gruppo, nel 2018, e La Soluzione Reboot, nel 2020.
Abbiamo visto, in seguito, il suo nome accostato a Roy Paci, Daniele Silvestri e il 10 luglio della scorsa estate il siciliano ha pubblicato con il suo ex giudice Elio, degli Elio e le Storie Tese, il singolo “Canti ancora?!”
Il motivo per cui lo stiamo intervistando oggi non è soltanto per conoscere meglio questo personaggio. Il cantautore salirà sul palco della settantunesima edizione del Festival di Sanremo, nella categoria delle “Nuove Proposte”, con il brano “Regina“. Abbiamo chiacchierato con l’artista telefonicamente, mentre si trovava on the road, reduce dalle prove con l’orchestra per l’evento televisivo a cui assisteremo ai primi di marzo. Nonostante numerose gallerie sulla strada abbiano tentato di impedire la comunicazione, siamo riusciti a farci raccontare da Davide Shorty del suo percorso e delle sue aspettative per questa nuova avventura che lo attende.
Nel corso della tua carriera ti sei ritrovato ad affrontare diversi tipi di palchi, con annesse ovviamente differenti tipologie di pubblico. Dall’esperienza da busker a Londra, fino ai palchi italiani, i televisivi di X Factor, AmaSanremo ed il prossimo, che sarà quello dell’Ariston, ne hai vissute parecchie. Da artista, che differenza noti tra queste realtà?
La differenza è nel contesto. I miei preferiti, da sempre, sono i palchi dei club, dove si sta attaccati e la band è praticamente in mezzo al pubblico. C’è una connessione speciale. Il palco televisivo è una sfida principalmente con te stesso. Essendo ripreso ed esposto, sei sotto una lente di ingrandimento ed incentivato a dare il massimo. Per me, è una sfida per potermi analizzare, poter andare fuori dalla mia comfort zone.
È interessante anche la posizione del pubblico, che cambia a seconda dell’ambiente a cui si fa riferimento.
Sì, assolutamente. Ad esempio, i concerti che ho fatto la scorsa estate, con il pubblico seduto, sono stati strani. Quel tipo di ascolto è bellissimo. Io sono un amante dei jazz club e lì si sta per la maggior parte seduti. Non è poi una cosa così diversa rispetto alle abitudini. Però, la distanza che si crea in un grande teatro, in un enorme spazio in cui tutti devono star seduti, quello è un altro discorso. Mi ricordo di un live a settembre con i Funk Shui Project a Torino: in un posto che solitamente può contenere circa seicento persone, ce n’erano ottanta distanziate.
Quindi, la differenza tra i palchi è proprio il contesto, l’approccio potrebbe essere più o meno lo stesso. Io cerco sempre di immergermi al 100% nella musica.
Invece, che aspettative hai per questa nuova avventura?
Sto vivendo questa esperienza come un’analisi, un motivo per poter studiare e affinare determinate tecniche. Come direbbe Ghemon, nel brano “Bellissimo”, “rilassarmi nel pericolo”. Ciò che comunica quella canzone è una delle cose che più mi tiene motivato, riuscire a rilassarmi lontano dalla mia zona di comfort. Per il resto cerco di viverla così come viene. È una cosa che ho immaginato tanto, non vedevo l’ora che avvenisse e prendesse forma. Mi rende felice vedere un’orchestra che suona la mia musica. Durante le prove, è stato veramente speciale sentire questo brano in una veste diversa. Nella sua stranezza, mi sembrava tutto normale. Come se fosse davvero giusto che questa cosa, a cui ho lavorato tantissimo, accada.
Pensandoci, sarebbe molto interessante un lavoro, che sia un disco o un EP, in collaborazione con Ghemon.
Io e Ghemon siamo amici da una vita, abbiamo già lavorato insieme anche ad Ainé, per il pezzo “Tutto dorme“, all’interno del disco (per l’appunto di Ainé) Generation One. Presto ricollaboreremo sicuramente. Di realizzare un progetto più esteso non potrei che esserne fiero, perché lui per me è un maestro e a lui devo la mia formazione artistica. Grazie alla sua conoscenza ho scoperto tanti artisti che sono diventati i miei punti di riferimento. Sia a Ghemon che a Tormento devo moltissimo.
Hai citato i Funk Shui Project, con cui hai collaborato per la realizzazione dei due album Terapia di gruppo nel 2018 e La Soluzione Reboot nel 2020. Questa unione ti ha portato a vivere l’esperienza di un gruppo. Raccontaci di questa realtà corale paragonata a quella da solista.
Sono due cose molto diverse. Mi sento molto fortunato con i Funk Shui Project, perché nel gruppo non c’è un leader, siamo tutti capi, ognuno è complementare dell’altro e ognuno ha una sua funzione. Viene tutto molto spontaneo. Per quanto riguarda, invece, il mio mondo da solista ci sono solo io “in charge”, perché io compongo, scrivo i testi e poi li interpreto. In un certo senso, mi sono autocomplicato la vita, perché mi piace mettermi alla prova. Ho una visione molto chiara di quello che voglio essere come artista. Però, è anche un’arma a doppio taglio, perché se sbaglio qualcosa, la responsabilità e le conseguenze riguardano solo me. C’è tanto lavoro da fare e da solo non è semplicissimo. Ad esempio, io non so missare e mi sto facendo aiutare da Alessandro La Barbera, che oltre ad essere mio collaboratore da tempo, è un mio amico fraterno. È importante circondarsi delle persone giuste con cui lavorare. In un progetto solista non sei mai davvero da solo. Poi, a me piace molto condividere la mia musica con gli altri e do molta libertà espressiva a chi contribuisce al progetto. Gli umani sono esseri sociali, quando li inserisci in una realtà artistica è qualcosa di ancora più intenso. Alla fine dei giochi, non trovo tantissima differenza tra questi due mondi.
Lo scorso 10 luglio è uscito il tuo pezzo “Canti ancora?” con Elio. Nell’intro, il tuo ex giudice ti dice: “Sentiamo un po’ come hai lavorato in questi anni” ed insieme criticate un po’ quella che è la scena musicale del nostro Paese, ma più che altro dal punto di vista del pubblico, che non cerca, ma preferisce “farsi cercare” dalla musica attraverso le mode. Innanzitutto, ti chiedo come è stato lavorare di nuovo insieme ad Elio. Poi, facendo riferimento al testo, quale potrebbe essere, secondo te, un modo per rivoluzionare lo showbiz e farlo funzionare correttamente?
Lavorare con Elio è stato divertentissimo e super immediato, perché, come potrai immaginare, è un personaggio pazzesco. È stato molto semplice coinvolgerlo. La cosa che mi ha fatto impazzire è che quando gli ho esposto la mia idea lui si è messo lì, ha fatto praticamente due take ed avevamo sia l’intro che l’outro. È stato speciale, perché io sono cresciuto con la sua musica. Un onore avere la sua voce su un mio pezzo. Poi, abbiamo fatto ironia su qualcosa che in un modo o nell’altro abbiamo vissuto insieme. Essendo stato il giudice in un talent show, conosceva il meccanismo molto bene. Si è prestato con tanta umiltà ed il massimo della disponibilità. Al di là della collaborazione e di quell’esperienza, c’è davvero una bella amicizia. Questa è una cosa non scontata e bella da raccontare.
Per l’altra domanda, io credo che si dovrebbe studiare più musica. Inserirla come una materia di studio nei licei, come un qualcosa di importante da poter assorbire. È un processo veramente lungo quello rivoluzionario. La prima cosa che bisogna fare è incentivare le persone all’ascolto. Dato che neppure questo è un dato scontato, è necessario insegnare ad ascoltare e in qualche modo parlare di empatia sin dalla tenera età. Fuori dall’Italia, la musica è parte integrante addirittura dall’asilo. Essere esposti a questo mondo è il primo passo. Poi, l’industria dovrebbe riequilibrarsi e permettere agli artisti di dar vita alle proprie visioni, piuttosto che concentrarsi su delle formule prefabbricate solo perché portano successo e numeri. Molti artisti si trovano schiacciati da questo meccanismo. Non tutti, fortunatamente, ci sono delle eccezioni. C’è un dislivello, da questo punto di vista, che credo sia un po’ troppo evidente. Mi piacerebbe che ci fosse un investimento maggiore da parte di chi ha il “potere” sulla musica non banale, in grado di esprimere l’essere umano nella sua completezza. Ci deve essere ovviamente della musica semplice, che ti distrae e non ti fa pensare, ma ci vuole equilibrio. Gli esseri umani sono complessi, quindi rifiutare la complessità nei brani significa ignorare questo aspetto importante.
Questo banalizza anche lo stesso pubblico.
Esatto! È un insulto alle persone. Così stai insinuando che tutto il pubblico vuole solo roba banale. Stai sottovalutando il potenziale della gente.
Passiamo finalmente ad addentrarci nella tua canzone del prossimo Festival di Sanremo, che ti vedrà partecipare nella categoria delle “Nuove Proposte”. Com’è nata la tua “Regina”?
Questa “mia” “Regina” è nata da una regina in carne ed ossa! [ride ndr.] Stavo vivendo una storia d’amore, conclusasi e poi trasformata in un’amicizia. La canzone è stata scritta nel cuore della storia stessa. La protagonista del brano è diventata poi anche il volto del video e della copertina. Sentivo di voler raccontare questo momento e la storia di questa giovane donna forte, ma traumatizzata. La vedevo talvolta persa, quindi ci tenevo a ritrarre questa sua dualità. Ci sono all’interno anche delle scene realmente accadute tra noi. Regina è frutto di istanti realmente vissuti. Mi sono ritrovato – nel settembre 2018, nei giorni in cui è uscito Terapia di gruppo insieme ai Funk Shui Project – con Claudio Guarcello, Emanuele Triglia e Davide Savarese, in uno studio che ci siamo acchittati. Benedico il momento in cui è successo, perché da lì è nato qualcosa di magico. Eravamo sul lago Maggiore, immersi nel verde, in uno spazio abbastanza rudimentale. Abbiamo proprio messo insieme le basi per poter registrare. Oltre alla canzone, abbiamo lavorato anche ad altre, che saranno contenute nel mio prossimo disco. Riascoltare la session di “Regina” alla fine della giornata, ci ha fatto proprio immaginare il palco dell’Ariston. È stata la prima cosa a cui ho pensato.
È molto profondo l’amore descritto. È un uomo a cantare ad una giovane donna, che con i suoi traumi ed i suoi ostacoli da superare diventa la vera protagonista. Cosa ha significato, per te, questa quasi immedesimazione nel personaggio femminile?
È stato qualcosa nato dalla convivenza. Tutti abbiamo una parte femminile. Da piccoletto ne ero spaventato. Pur essendo eterosessuale, ho notato che l’identità di genere è indotta dalla società in cui viviamo. Ho imparato a distaccarmi da questa categorizzazione. Il motivo per cui mi sono immedesimato in Céline Lancini, la “Regina” della canzone, è stato perché vivevamo in simbiosi in quel periodo. Per me è stato semplice raccontare la sua bellezza. Rivedermi in un personaggio femminile può essere anche frutto di una maturazione del pensiero. Mi sono allontanato dall’immaginarmi come uomo, per vedermi come un essere umano.
Come hai affermato più volte, quando avete registrato questa canzone non riuscivate a smettere di ascoltarla e tu stesso hai chiesto alla tua band: “ve la immaginate ‘Regina’ sul palco dell’Ariston?”. Oggi, a distanza di due anni e mezzo, ti rigiro la stessa domanda: “E tu, Davide, immagini ‘Regina’ sul palco di Sanremo?”
Certo che me la immagino! Anzi, non ho mai smesso e non vedo l’ora di salirci su quel palco.