– di Riccardo De Stefano –
Che anno incredibile è stato per Achille Lauro. Un anno fa saliva sul palco dell’Ariston come lo sconosciuto che veniva dalla Trap e cantava di droga. Colpevole di non si sa bene cosa, era il bersaglio perfetto per tutta la facile polemica dei mass media in cerca di scoop.
365 giorni dopo, con un altro bersaglio delle polemiche, torna al Festival e ci torna da Re. In un secondo – quell’ istante in cui si spoglia letteralmente delle vesti – attira su di sé tutta l’attenzione di rete e stampa.
E ci salva tutti dalla noia di questi giorni.
Parlando del brano: spacca. Benché liricamente ci siano i soliti giochini verbali di Lauro (faccia d’angelo/Michelangelo, o mio dio, etc…) e vocalmente sia talmente out da fare genere a sé, il brano è nettamente e volutamente diverso da tutto quello che è passato su quel palco. Una sorta di fratellino di “Rolls Royce”, “Me ne frego” è scritto meglio e superando lo shock value del brano dell’anno scorso, confeziona insieme a Boss Doms e Frenetik&Orang3 un piccolo inno generazionale, sulla scia di Vasco ma non di meno incredibilmente personale.
E poi la performance. L’incredibile performance che è musica, è arte. Perché lo show, il salire sul palco e cantare di fronte a milioni di persone (quelle collegate alla tv almeno) fa parte dell’arte. Musica e performance grazie al cielo non sono (né saranno mai) distaccate l’una dall’altra.
Ci cita ovviamente David Bowie e si sprecano i paragoni (qui è quando noi lo dicevamo un anno fa).
La differenza sta nel fatto che David Bowie era un alieno, venuto da Marte per frullare i generi sessuali e mostrarci come cambiare la testa delle persone.
Achille Lauro è umano, troppo umano. Non è di quella bellezza androgina irreale, e quando si spoglia emergono le imperfezioni fisiche, i tatuaggi, che enfatizzano il suo esser corpo vero di una bellezza “non capitata” (a differenza di quella di una Diletta Leotta, di una bellezza perfettamente prostetica).
E continua a cantare col suo timbro e la sua voce imprecisa, quella che ti fa urlare allo schifo chi si aspetta su quel palco il cliché del cantante bravo-e-bello.
No, Achille Lauro non rientrerebbe nei canoni della kalokagathia. Per questo è vero, è avvicinabile da tutti noi. È un modello comprensibile, splendidamente imperfetto eppure quasi irraggiungibile, non perché dentro un modello irreale, ma perché coraggioso e sfacciato come tutti noi vorremmo essere e non riusciamo.
Sanremo è un’istituzione e nessuno si aspetta mai qualcosa capace di uscire dai canoni dell’ordinario: apriamo la tv solo per confermare il nostro odio e amore verso gli artisti, i presentatori, lo show. E chi sale sul palco lo fa forse emozionato, ma senza nessun valore espressivo reale, quasi annoiato dal dover calcare il palco e rispettare le aspettative del pubblico.
E Achille Lauro, svociato e con le maniglie dell’amore, è quanto di più espressivo oggi.
Achille Lauro è un artista, uno dei più interessanti in Italia. Sta prendendo ogni occasione che gli capita per fare performance art.
Dio ti prego salvaci da questi giorni, tieni da parte un posto e segnati sto nome: Achille Lauro.