– di Benedetta Minoliti –
La musica è ciclica. Sarà una banalità, da scrivere e da dire, ma è così. Sì arriva ad un certo punto in cui il mercato diventa saturo e tutto quello che ascoltiamo ci sembra di aver già sentito in altri (almeno) dieci brani.
Simone Sacchi, in arte See Maw, è però uno di quegli artisti che ti potrebbe far dire: qualcosa sta cambiando. Perché ha scelto di intraprendere la strada della musica unendo elettronica e cantautorato. Ha scelto di raccontarsi sperimentando, adagiando le parole su beat elettronici che ti fanno subito venir voglia di muovere la testa e ti fanno rivivere, soprattutto in questo momento, le atmosfere delle serate nei club e fanno crescere sempre di più la voglia di tornare alla normalità.
See Maw, nel roster di Undamento dal 2019, è una ventata d’aria fresca che ci ricorda che sperimentare e dare sempre un nuovo volto alla musica è fondamentale per crearsi una propria identità e rendersi subito riconoscibili al pubblico. E speriamo che questa ondata di musica elettronica sapientemente mixata alle parole sia solo l’inizio di una nuova era per la musica nostrana.
Tu mescoli elettronica e cantautorato. La domanda sorge quindi spontanea: quali sono le tue principali influenze?
Dal punto di vista degli arrangiamenti e produzione, soprattutto in quest’ultimo periodo sono stato influenzato da Jamie XX, David August, James Blake, ma già da un po’, come anche Channel Tres. Per quanto riguarda i testi invece io sono cresciuto con De André. Non posso dire che sia il mio modello di riferimento, perché i testi di Faber sono troppo “forti”. Mi baso su come si è evoluto il testo al giorno d’oggi, con i vari cantautori contemporanei. Mi lascio un po’ trasportare, cerco di capire com’è cambiata la scrittura e provo così a comprendere quali sono i riferimenti di oggi.
Il 5 giugno hai pubblicato il tuo primo album, A luci spente. Com’è stato pubblicare questo progetto in questo periodo così difficile e com’è stato farlo con affianco la tua etichetta, Undamento?
Il disco non è stato rilasciato nel momento migliore (ride, ndr). Undamento mi è servita da scuola. Nel senso, Ghiaccio, il mio primo EP, l’avevo fatto home made, come in realtà tutto quello che faccio, ma era più da cameretta, fatto da solo. Ho notato la differenza con la mia etichetta che mi è servita per capire quali pezzi possono funzionare a livello di sound e cosa può arrivare al pubblico. Anche l’aver collaborato con gli artisti della label è stato di grande insegnamento. La stimo molto come etichetta e stimo tutti gli artisti che ci lavorano, dal più grande al più piccolo.
A proposito di artisti, hai collaborato con Ceri, che fa parte di Undamento, e con gli Iside. Come sono state queste collaborazioni?
Tutte bellissime. Ceri è una sorta di maestro, quindi è stato molto formativo. Gli Iside li avevo trovati in un po’ di playlist, mi erano piaciuti e li avevo contattati su Instagram. Loro mi hanno risposto dicendomi che neanche a farlo apposta stavano ascoltando il mio disco. Quindi ci siamo incontrati e c’è stato subito un gran feeling. Ci siamo piaciuti subito e al di là della simpatia personale ci siamo trovati davvero bene a suonare insieme. È nato tutto spontaneamente e questa è una cosa che mi piace moltissimo. Odio le cose forzate, perché si capisce che non è il momento o magari la compagnia giusta. Ma non è stato questo il caso.
Lo scorso 6 agosto ti sei esibito durante la rassegna “Cuori Impavidi”. Sono passati diversi mesi e, ripensandoci oggi, che ricordi ti sono rimasti di quell’esperienza?
È stato il live più bello che io abbia mai fatto. Mi sono sentito proprio tranquillo sul palco. Io sono un tipo stra ansioso di natura, qualunque cosa faccia, ma in quel live è andato tutto liscio. Era la prima volta che portavo il mio nuovo lavoro sul palco e sono davvero contento di com’è andata.
Visto che siamo tornati in lockdown, come lo stai vivendo e come hai vissuto il periodo marzo-aprile? La tua produttività ne ha risentito?
Io sono sempre stato produttivo, prima e durante il lockdown, e anche adesso che siamo di nuovo chiusi in casa non fa molta differenza. Io produco in camera e questa cosa c’è sempre. Io comunque poi ho un altro lavoro part-time che non c’entra con la musica, quindi esco. Nel primo lockdown sentivo più la clausura perché non avevo turni e quindi sì, forse lì ho un po’ più sofferto lo stare in casa. Però è anche il periodo in cui ho scritto Fuoco in corpo, il mio ultimo singolo, che racconta proprio la voglia di esplodere.
Sì, in Fuoco in corpo si sente proprio tutta la tua necessità di esplodere e di evadere.
Sì, il brano è nato proprio dalla voglia di esplodere, mentre stavo chiuso tra quattro mura, con la voglia di fare live. Mi sono basato anche su una relazione avuta qualche anno fa e che mi ha segnato particolarmente, e l’ho messa in relazione al lockdown. In realtà la relazione è una scusa (ride, ndr), mi ha aiutato a esternare come mi sentivo.
Parlando del disco, mi sembra chiaro che i fili conduttori tra le varie tracce siano l’amore e le relazioni.
In realtà molto spesso colgo l’occasione per lasciare il dubbio sui miei riferimenti. Nei miei testi mi capita di parlare della relazione con la mia famiglia e non esplicitarlo, anche per non essere troppo “tematico”. Parlo delle cose che mi segnano e ho ancora tantissime cosa da raccontare. Però cerco sempre di rimanere vago, dando qualche segnale. Mi piace però tantissimo raccontare le atmosfere che riescono a raccontare messaggi e storie, come faccio per esempio in A luci spente. Lì racconto proprio i colori, il momento, l’atmosfera, più che una storia precisa.
In un brano dell’album, Piangi, dici: “Butto la paura su pezzi di carta”. Sì percepisce, e me lo hai confermato, che la musica per te è un modo per catalizzare le tue emozioni, sia belle che brutte. C’è stato però un momento in cui hai avuto difficoltà a farlo?
Io compongono e prima del testo arriva la musica, quindi già lì sto raccontando. Poi con il testo non faccio altro che rendere più “chiaro” quello che voglio raccontare. In generale ho difficoltà a raccontare le cose personali in modo schietto ed esplicito, per questo non vado mai al punto di dire “mi è successo questo o quello”, perché per me significa mettersi a nudo in un mood che non è da me. Preferisco rendermi nudo, ma girandoci attorno.
Sempre parlando del disco, c’è una traccia a cui sei particolarmente legato?
Champagne, perché mi piace veramente tanto il ritornello, ma ha anche un significato importante per me, perché parla delle mie paure. Nella prima parte esplicito tutto in maniera abbastanza forte e cupa, per poi, nel ritornello, alleggerire le cosa dicendomi “fa niente Simone, non pensarci”. È più un messaggio che continuo a rivolgere a me stesso, per questo mi piace.
Visto che oggi è venerdì, giorno a cui hai dedicato un pezzo, qual è il tuo venerdì ideale?
Il mio venerdì ideale è al Tempio del Futuro Perduto (centro culturale a Milano, situato all’interno della Fabbrica del Vapore, in zona Monumentale, ndr), a ballare, ritrovarmi con gli amici e stare lì fino alla mattina. Questa cosa mi manca molto. È sempre stato molto poetico per me, non è semplicemente un andare lì e sbronzarsi. Infatti cerco di raccontarlo nei miei pezzi, perché l’atmosfera del club mi piace molto. Sento che può raccontare tanto e ai più magari sfugge. Poi è più un desiderio in relazione al lockdown (ride, ndr), perché in questo periodo non balliamo da un bel po’.
Hai altri luoghi del cuore a Milano?
Il Tempio è il posto che ho frequentato di più, ma ci sono anche Macao e Discosizer. Senza togliere nulla a questi posti, il Tempio ha una sua magia unica.
Si percepisce, soprattutto attraverso i tuoi videoclip, che ci tieni molto anche all’estetica. C’è qualcosa che non può mai mancare nei tuoi lavori e qualcosa che invece non vorresti mai mettere?
Ce l’ho! La cosa che cerco di mettere sempre è la bella immagine. Ci deve essere una bella estetica, un bel mood, una bella atmosfera, deve raccontare qualcosa. Una cosa che invece cerco di non mettere mai sono i simbolismi, quelle cose che vanno a fare un po’ “l’artistico”, anche se in realtà nella copertina del disco un po’ c’è (ride, ndr), ma c’è molto più mood che simbolismo. In generale voglio che il mood racconti qualcosa.
Dal tuo primo singolo ad oggi, secondo te, quali sono stati i più grandi cambiamenti nel tuo progetto?
Sicuramente i suoni sono cambiati, direi anche meno male (ride, ndr), perché c’è stato un percorso. È cambiata anche la struttura dei pezzi, perché ho capito che parole usare, ho sviluppato un mio gusto nelle parole da utilizzare e nei suoni da mettere. Ho trovato anche una mia direzione, sempre mia personale. In Ghiaccio spaziavo tanto tra i generi perché la musica mi piace quasi tutta. Però ovviamente non posso continuare a farli tutti, perché sarei troppo vago. Allo stesso tempo non va bene neanche fossilizzarsi su un solo genere, infatti non lo faccio quasi mai.
Una curiosità: com’è nato il tuo nome d’arte?
See Maw è nato da un nickname su Whatsapp. Semplicemente mi era venuto in mente così, classico gioco di storpiare le parole, facendo finti inglesissimi. Mi piace il fatto che è come dire “Simo”, ma scritto in un altro modo. Poi, ognuno lo pronuncia come vuole. Mia madre per esempio lo pronuncia come si scrive, alcuni “Simau” e a me piace questa cosa. È bello che ognuno lo pronunci come vuole, alla fine sono sempre io.
Molti si infastidirebbero sentendo il proprio nome “storpiato”.
Credo sia come se qualcuno mi chiamasse “Simoncino” invece di Simone. È una storpiatura, però perché quello va bene e un altro no? Alla fine è la stessa cosa, può fare solo piace che qualcuno ti chiami a modo suo.