– di Martina Rossato –
Neon Rain è il nuovo album della formazione romana The Public Radar. Il disco arriva dopo quasi dieci anni dal primo, A New Sunrise (2015), ed è stato pubblicato per Pop Up Records. L’approccio moderno della band la rende un unicum nel suo genere: riprendere le sonorità anni Ottanta rischia spesso di diventare una mera operazione nostalgia, ma non è così per i The Public Radar. Il gruppo riesce infatti a sviscerare, interpretare e attualizzare ciò che quegli anni hanno rappresentato nell’essenza più profonda.
Abbiamo intervistato Max Alto, voce e chitarra del duo, per parlare di quello che è successo dalla pubblicazione del primo disco ad oggi, non solo all’interno del gruppo ma nella musica italiana e internazionale. Max ha fatto le veci anche di Francesco Conte, che si occupa di chitarra e synth dei The Public Radar.
Il suono che portate già dal disco d’esordio, con synth e beat anni Ottanta, sembra aver avuto un ritorno di popolarità negli ultimi anni. Pensate che queste sonorità rappresentino in qualche modo i nostri tempi?
Abbiamo sempre pensato che una musica davvero buona non sia mai datata; sicuramente negli anni Novanta il synth pop non ha vissuto un periodo florido, ma chi ha dato vita a quel genere ha continuato ad alimentarlo, forse con più contaminazioni di elementi meno elettronici, vedi i Depeche Mode con un grande utilizzo di chitarra, o i New Order che hanno sperimentato cercando strade leggermente diverse dalle solite. Ma, al dunque, crediamo che non sia mai realmente tramontato il beat anni Ottanta, e oggi più che mai si cerca di far rivivere quella sonorità con una veste più consona ai tempi. Forse il solo difetto che si percepisce in questa nuova ondata è che pochi gruppi tendono a fare delle vere e proprie “canzoni”: la maggior parte si dedica alle atmosfere, a un sapore più “soundtrack”, in cui la voce è meno presente. Noi siamo ancora ancorati a un concetto più classico di canzone. Ma ben vengano, comunque, realtà come KavinskyIl moniker del DJ e producer francese Kavinsky è di solito reso graficamente come KΔVINϟKY, ndr!
Sono passati quasi dieci anni dalla vostra prima pubblicazione: è stato difficile tornare a scrivere dopo tanto tempo oppure questo lungo periodo vi ha permesso di scrivere un “nuovo esordio”?
La scrittura è un qualcosa che andrebbe sempre alimentato, al di là degli obiettivi o delle scadenze. Io e Francesco siamo continuamente immersi nella musica, a volte di più e a volte di meno, ma rimane la nostra ossessione principale. Nel periodo del lockdown, come tantissimi artisti, abbiamo ritrovato il tempo per ispirarci e sbloccare una composizione apparentemente un po’ arrugginita, ma che poi si è sviluppata con una creatività estremamente fluida e, mi permetto di dire, anche con una consapevolezza compositiva che non c’era mai stata prima. Invecchiare a volte fa bene.
Solitamente dopo tanto tempo si sviluppa uno stile totalmente nuovo. Nel vostro caso, invece, Neon Rain sembra confermare e rafforzare quello che già eravate. È così?
A livello stilistico è vero, ma a livello compositivo trovo che ci sia stata una grande evoluzione. Sul nostro primo EP abbiamo raggruppato delle idee, che si sono materializzate in un synth pop molto indie; su A New Sunrise la strada da percorrere sembrava più chiara, ma a livello di brani, a mio parere, non è stata fatta la scrematura che serviva. Neon Rain è un album nato da una spinta emotiva forte, e, ripeto, con una grande consapevolezza compositiva che mancava. Il suono è importante, ma se non ha la canzone c’è poco da fare.
Per questo disco avete collaborato con Steve Lyon, come è stato lavorare con lui e come si è svolto il lavoro nel concreto?
Francesco aveva già lavorato con Steve per il mix dell’album degli Spiritual Front, [The Queen Is Not Dead, ndr], così decidemmo di contattarlo per sapere se fosse stato interessato a lavorare con noi in veste di fonico/produttore. Una volta ascoltato tutti i demo che gli avevo mandato accettò, rendendoci sicuramente orgogliosi per non avergli presentato della robaccia! Il lavoro, nel concreto, lo impostammo mandandogli quelle che erano le nostre idee base di arrangiamento, di struttura, di suoni e di reference che avevamo in mente. Steve ci lavorava e ci mandava delle proposte, cercando anche delle strade non sempre così ’80s come gli avevamo chiesto. Ma, in questo confronto di opinioni e soluzioni diverse, dobbiamo dire che è nato qualcosa di molto soddisfacente. Steve ha una grande personalità e mantiene fortemente il punto, se ha un’idea ben precisa; per questo siamo contenti di come suona Neon Rain, perché è il frutto di tre personalità molto forti che hanno trovato l’equilibrio per portare a termine un lavoro impegnativo.
Siete di Roma, ma scrivete in inglese e lavorate in parte a Londra. È diverso lavorare nella musica in Italia rispetto all’estero?
Scriviamo in inglese perché siamo nati e cresciuti con musica internazionale. Francesco è un onnivoro di musica, conosce tutto e tutti e ancora oggi, pur avendo realizzato un disco synth pop con i The Public Radar, è un chitarrista e compositore di metal come pochi ne ho visti. Io, a quattro anni, impazzivo per Suzi Quatro, i Kiss, i Knack, gli Iron Maiden; quindi, direi che era inevitabile che, dopo aver assorbito tanta internazionalità, venisse spontaneo scrivere brani in inglese. Il concetto di lavorare nella musica in Italia rispetto all’estero avrebbe bisogno di considerazioni che renderebbero infinita questa intervista… Diciamo che le differenze si sono viste, si vedono e si vedranno, se le cose non cambiano, musicalmente parlando.
Avete mai fatto esperimenti di scrittura in italiano? Pensate che ci siano generi intrinsecamente legati alla lingua inglese?
Io e Francesco suoniamo insieme dal ’96, suonavamo in una band che si chiamava Web con Mauro Munzi e Massimo Conti (ex Dhamm). In quel contesto facevamo rock, molto vicini alle sonorità grunge, e lo facevamo in italiano perché sarebbe stato il solo modo per essere ascoltati da un discografico. Tutto molto triste a mio parere. Prendiamo come esempio i Måneskin, che piacciano o no, sono delle star internazionali, e non credo che negli anni Novanta, in Italia, con l’imposizione della lingua italiana, sarebbero arrivati dove sono ora. Sanremo è una cosa, ma il mondo è un’altra. In generale, credo che esistano delle canzoni che sono strettamente legate compositivamente alla propria lingua, non riesco neanche a pensare a capolavori della musica italiana come La donna cannone di De Gregori, La cura di Battiato o Notte prima degli esami di Venditti in inglese, come mi riesce impossibile pensare a Enjoy the Silence dei Depeche Mode in italiano. Il nostro genere nasce anglosassone, e non a caso anche negli anni Ottanta cantanti italiani come Gazebo, Gary Low, Mike Francis cantavano in inglese.
Percepisco uno stretto legame tra musica ed estetica del vostro progetto, tra vaporwave, TV a tubo catodico ed una copertina che ricorda quella di Technique dei New Order. Esiste, per voi, una reciproca influenza tra questi due mondi?
Ottima osservazione su Technique dei New Order! Ma credo che sia casuale. Fabio Timpanaro si è occupato della grafica e ha fatto un lavoro stupendo, riuscendo a cogliere l’essenza di cosa volevamo rappresentare: una sorta di destrutturazione del classico, un busto fidiaco che si disaggrega come a cercare altre strade, in cui un colore così sfrontato riesce ad amalgamarsi al paradigma, misurandosi con un finto kitsch che non guasta mai nel mondo synth pop. L’estetica per noi è importante, ma la intendiamo diversamente da un contesto in cui l’apparenza supera la sostanza. Deve essere la musica a trasportare in una visione, esattamente come un piatto gourmet: l’impiattamento deve essere bello, ma se non è buono crolla tutto.
Ultima curiosità, sempre a proposito di rapporto tra musica e aspetto visivo: avete mai lavorato a colonne sonore (o vorreste farlo)?
Purtroppo no, e non nascondiamo che sarebbe un sogno nel cassetto. Anzi, il sogno non lo limiterei a un film o a una serie TV, ma sarebbe grandioso anche far parte di una colonna sonora per un videogame. Ormai il gaming ha raggiunto livelli incredibili, e mai come negli ultimi periodi il synth pop, il retrowave e generi analoghi hanno padroneggiato come scelta musicale, pensiamo solo a Death Stranding, dove troviamo anche i Chvrches.