– di Assunta Urbano –
WEPRO è allo stesso tempo il nome d’arte del giovane artista Marco Castelluzzo, quanto della sua etichetta discografica indipendente. Il termine che lo contraddistingue nasce in un periodo di studi di scrittura e produzione negli Stati Uniti, costituendo un mix delle parole Wedding e Project.
Dopo svariati anni di comparsate e collaborazioni televisive, tra cui la partecipazione ad Amici e Sanremo Giovani, ritorna a concentrarsi maggiormente sulla propria produzione musicale. L’11 giugno, in particolare, è uscito il suo nuovo pezzo Monster, in cui vi è un evidente ritorno alla chitarra elettrica.
Sei molto giovane ed oggigiorno il panorama musicale italiano è costellato da personaggi spesso al di sotto dei trent’anni. Come ti inserisci in questo mondo?
Credo che i ragazzi di oggi siano molto più svegli. Lo noto anche nelle persone che sono più piccole di me. Apprendono più velocemente e di conseguenza hanno sempre più da dire. Se dovessi paragonare la vita che hanno avuto i miei genitori, magari le esperienze che ha fatto mia madre a quarant’anni le ho fatte io a venti. Credo anche che nei giovani ci sia tanta forza, rispetto agli anni precedenti. Mi sono reso conto qualche giorno fa di seguire ed essere interessato musicalmente a persone giovani, rispetto a grandi personaggi che hanno un’età diversa. Adesso cerco anche di vedere quali sono le nuove correnti, come si muovono i giovani, anche come me, ritenendomi abbastanza giovane. C’è davvero tanto fervore. È una bomba, una figata incredibile.
Condivido. Per una volta, siamo anche noi giovani al centro dell’attenzione.
Parlando di te, ho notato che passi in modo repentino da un genere musicale all’altro, dal rock al pop, fino all’elettronica. C’è uno di questi che senti più “tuo”? Quanto è importante, secondo te, sperimentare, rinnovarsi e non restare ancorati ad un solo genere?
Ti dirò, non credo di avere un genere musicale. Non credo di essere catalogato solo perché suono una chitarra o faccio elettronica. La mia identità sono io, i miei testi e le mie melodie. Questa è la mia vera identità ed il mio genere musicale. Mi piace tantissimo il rock, ma un domani potrei fare altro. Non credo che nel 2019 esista ancora questa cosa dei generi. È davvero troppo vecchia. È musica, quella che faccio, non faccio un genere preciso. Io sono una persona che ama sperimentare. Io so già cosa andrò a fare tra un altro album e sicuramente saranno sempre cose nuove, perché credo che sia anche giusto buttarsi e non abituare l’ascoltatore sempre con la stessa cosa. Vedo la mia filosofia molto alla David Bowie, non come i Guns ‘N’ Roses, che fanno sempre quello e basta. La cosa positiva è che non si sa mai cosa ci si potrebbe aspettare.
In questo modo c’è anche la possibilità di avvicinare sempre diverse tipologie di ascoltatori. Così si valuta più l’artista, rispetto ad una canzone.
Esatto, perché quando io ti propongo una cosa non voglio farti appassionare al genere che faccio, ma a me ed il mio mondo. Non è un mondo piccolo, ma grande. È come se ti facessi vedere ogni volta un’area geografica di me, senza mostrarti mai la stessa.
Allora, parliamo di Monster, il tuo ultimo singolo pubblicato l’11 giugno, di cui è stato pubblicato il 18 giugno un videoclip. Sembra che tu ti stia ribellando a ciò che ti circonda. Perché per farlo bisogna diventare un “errore” per la società, o, per l’appunto, un monster? Cosa non funziona nel mondo in cui viviamo?
Oddio, che domandone! Veramente ci sono tante cose che non vanno. La canzone, di base, non voleva essere una ribellione, voleva essere più un risultato. Tutto quello che mi circonda mi ha portato ad essere questo. Questo è quello che volevo far trasparire. L’evidenziare come io mi sia ridotto. Ho pensato che la società fosse un laboratorio chimico. Io e la mia canzone siamo un risultato di esperimenti fatti lì. È una cosa un po’ contorta, strana, che mi piaceva molto ed ho voluto portarla avanti.
Riprendo una citazione all’interno della tua canzone: “Ho 4000 amici falsi sul cellulare”. Una situazione senza dubbio condivisibile e comune. Mi viene spontaneo chiederti, che rapporto hai con i social network e quanto pensi ci abbiano cambiato negli ultimi anni?
Hanno contribuito sicuramente sia in positivo che in negativo. La parte positiva è quella di riuscire a connettersi con tante persone. Il lato negativo è che ovviamente questa cosa porta anche ad alienarci. La gente spesso confonde la vita digitale con quella reale. I 4000 amici falsi sul cellulare sono proprio questo concetto di alienazione che viviamo. Non mi piace molto uscire di casa, per dirti, eppure ci sono tante persone con cui interagisco, con cui sono a contatto virtualmente. Questo è un problema, è una cosa strana a pensarci. C’è un grande distacco tra i due mondi. Tutti siamo sempre lì a controllare, a vedere. Essendo tutto anche molto visibile, ci guardiamo tutti i profili di tutte le persone del mondo e, a volte, cataloghiamo le persone in base al profilo che hanno. È una cosa orribile. Io spero che un domani questa cosa venga controllata, perché se non lo è, potrebbe portare a conclusioni terribili. Andare a scegliere le persone con cui entrare in contatto dalle foto che vediamo, da come si presentano, è malata come cosa. Non solo per i social, ma anche per alcune abitudini anormali a cui ci ha abituato la società. Di questa cosa di essere troppo schematici nella vita, del fatto che bisogna sposarsi, mettere su una famiglia. Sono cose ancora troppo radicate nella società. Le persone che non riescono a riflettere questa società diventano dei mostri, delle persone strane. Ecco, questo è un po’ il senso della canzone.
Io ci spero sempre che si ritorni al passato, con la macchina da scrivere, gli incontri casuali per strada. È un mio sogno impossibile.
Non credo che sia una cosa impossibile. Adesso bisogna scegliere. Oggi si ha la possibilità di dire tante cose. La parte difficile è evitare le cose che ci vengono imposte. Se una persona non ha Instagram è strana. Se prima con persone incontrate per strada scambiavamo i numeri, adesso scambiamo il profilo Instagram. È un modo strano di entrare in contatto con le persone. Dire di non avere Instagram o Facebook è strano. Chi non ha i social adesso? Per fortuna, abbiamo la possibilità di scegliere. Forse solo io sono così.
Secondo me, c’è un divario tra chi vent’anni li ha compiuti da poco (o deve ancora compierli) e chi l’ha passati da un pezzo. Dal punto di vista musicale, rispetto a quello umano di cui abbiamo appena parlato, credi che oggi sia possibile lanciarsi alla vecchia maniera, senza i social?
Credo che sia difficile, perché, secondo me, non rendi facile la scoperta. La cosa positiva dei social è che hanno un loro lato positivo. Io non sono uno che usa i social per pubblicare una storia ogni dieci minuti, soprattutto per auto pubblicizzarmi. Un altro modo per usare i social è pubblicare contenuti che siano artisticamente interessanti, per arrivare in modo fresco alle persone. Il problema è che non tutti lo sanno. È un buon mezzo. Senza social sarebbe difficile la scoperta. Secondo me è anche questo il lato bello. Puoi usarlo come ti pare. I social non fanno schifo, fanno schifo se li usi male. Non sei obbligato a condividere cazzate.
Poi io credo che se questo è ciò che un musicista condivide, ha il pubblico che gli fa da specchio.
Torniamo a te, il tuo universo unisce, tramite i videoclip, le tue più grandi passioni: la musica ed il cinema. Cosa significa per te quest’ultimo?
Credo che sia una bellissima forma d’arte. E’ una cosa che mi piace davvero tantissimo. Ho trovato molto bello il fatto di unire le due cose e poter dare all’ascoltatore un’altra porta per entrare in questo mondo. Da sempre ho sognato di farlo e adesso ne ho avuto l’opportunità. Ogni singolo è anticipato da questi piccoli corti, che, se uniti, vanno a comporre un’unica storia. Una storia che dovrà ancora finire, perché mancano ancora dei videoclip. L’ho sempre pensata come una cosa in più. Ci tengo a dire che non è una cosa che faccio per me, sono io il protagonista della cosa. Io sono come quelle persone che ti invitano a sederti nei ristoranti. Voglio solo farti entrare perché so che è una cosa che potrebbe piacerti. Non è riguardo me, ma riguardo ciò che io voglio dirti o farti vedere. Non mi metto in primo piano, sono un tramite, fondamentalmente.
Hai preso parte a programmi televisivi come Amici, Sanremo Giovani, sei stato cantante della colonna sonora del film d’animazione Disney Queste esperienze ti hanno, in qualche modo, cambiato? Quanto è fondamentale restare se stessi in questo tipo di occasioni, ed in particolare davanti alla macchina da presa?
Sicuramente tutte queste esperienze mi hanno insegnato qualcosa. Non sono mai uscito da queste esperienze pensando che fosse tutto finito. Non l’ho mai pensata in quel modo lì, anche perché ho avuto la fortuna di fare tutto da giovanissimo. Quando ho lavorato con la Disney avevo tredici anni. Ho fatto Amici che ero il più piccolo della cosa. Sono sempre stato il primo, il più piccolo. Questa cosa mi ha dato un grande vantaggio. Ho preso tutto ciò che potevo per portarlo nel mio mondo. Ho cercato di capire come ogni cosa potesse servirmi. Tutto questo mi ha insegnato delle cose che oggi butto fuori con i miei lavori. Dall’altra parte è anche molto difficile restare sé stessi e non farsi giocare dai sistemi televisivi. A Sanremo, per dirti, non potevo fare quelle cose. Io ovviamente ho fatto quello che sentivo e ciò che fa parte della mia arte. Io non sono uno che fa spettacolo. Certo, mi piace farlo, ma piuttosto è parte di quello che faccio. Io sono la mia arte. In quel momento stavo raccontando qualcosa, chi l’ha capito l’ha capito, chi non l’ha capito, bene. Mi fa anche piacere che qualcuno non l’abbia capito. È difficile essere se stessi in queste occasioni. Sicuramente sarebbe stato figo vincere, però non era quello il mio obiettivo. Sono semplicemente andato ad esporre me stesso e a dare tutto al 100%. Non devo avere le palle per fare me stesso.
Pensando anche a chi non ti ha capito, devo dire che non è sempre una cosa negativa, anzi, serve a farsi cercare.
Esattamente, è anche bello non essere capiti. Va bene, è una cosa figa.
Forse è una delle poche cose che ci rende ancora tutti diversi.
Assolutamente. Poi, nonostante le critiche, io speravo tanto quella reazione lì. Quando ho visto che varie persone non avevano capito, allora ho intuito di aver fatto centro. È giusto che ci siano due fazioni. A me piace essere polarizzante nelle cose che faccio. La cosa più brutta che qualcuno ti possa dire è “okay, carino”.
Non capisco perché a Sanremo c’è chi non mette sé stesso sul palco. Se lo incontri al Mi Ami lo vedi in un modo, a Sanremo in un altro. È una cosa che non riesco a sopportare. Questa cosa del politicamente corretto solo per piacere a Sanremo mi sembra una cazzata che fanno solo in Italia. È bello, invece, smuovere le cose.