– di Riccardo De Stefano
Foto in alto di Elisa Modesti –
Sembra ieri, ma sono passati già dieci anni da quando l’etichetta Woodworm di Arezzo ha iniziato il proprio percorso nel mondo della musica indipendente e alternativa italiana. E che anni sono stati! Alcuni dei nomi più interessanti che oggi girano, li dobbiamo proprio a Marco Gallorini e Andrea Marmorini, i due fondatori e le due anime dietro Woodworm. Artisti del calibro di Motta, Fast Animals And Slow Kids, La Rappresentante di Lista, The Zen Circus, Ministri, Giovanni Truppi, Paolo Benvegnù – ma la lista è lunghissima – hanno incrociato il loro percorso artistico con i ragazzi di Arezzo. Che oggi, in un momento di difficoltà globale, annunciano tantissimi nuovi progetti e guardano, ora più che mai, al futuro.
Li abbiamo incontrati per parlare di cosa è stato e cosa sarà Woodworm.
Partiamo dall’inizio. Perché nacque Woodworm? Qual era l’intenzione con cui vi siete affacciati a un mercato in quegli anni giovane, diverso, innovativo rispetto a quello che passava nel circuito radiofonico e televisivo?
Andrea | Perché Woodowrm è nata come sintesi di cose già fatte individualmente da me e Marco. Avevo già per conto mio un’etichetta, lavoravo come fonico, Marco si occupava di editoria e libri, avevamo intrapreso un percorso in comune in Arezzowave. Marco seguiva la parte che riguardava più la letteratura mentre io la parte più tecnica, legata ai palchi. Dopodiché aprimmo un circolo culturale, lo chiamammo Karemaski e venne fuori l’idea. Eravamo entrambi appassionati di vinili, di musica. Avevamo votato la nostra vita alla musica in termini lavorativi e di tempo. Con le nostre skills pregresse volevamo fare un’etichetta inizialmente solo di vinili, di tutti quegli artisti che ci piacevano ma che non rilasciavano su quel supporto. Venne fuori creando una rete attraverso il circolo culturale in cui eravamo. Venivano artisti a suonare, li conoscevamo, entravamo in contatto, parlando ci trovavamo d’accordo su molti punti rispetto a quello che era il contesto della musica indie in quel momento. Quindi c’era una realtà parallela alla nostra su Bologna, Milano, un mood generale sparso un po’ su tutto il territorio italiano. L’idea mia e di Marco era di mettere in campo tutta la nostra formazione seguendo una linea, un modello discografico che a distanza di dieci anni ancora seguiamo.
Hai parlato di varie scene, quella milanese, bolognese, quella romana. Avete dato voce al circuito del centro Italia: i FASK come sappiamo vengono da Perugia, gli Zen Circus sono toscani, come Motta seppure romano di adozione. Che movimento è uscito fuori in quella zona, a cavallo tra gli anni zero e gli anni dieci?
A | Parto dal presupposto che tanti giri nostri sono emersi grazie al suonare dal vivo, di sicuro c’è il ruolo degli spazi che permettono di suonare. Bologna, la Toscana, Roma hanno luoghi dove c’erano molti spazi per esibirsi, quindi anche molti momenti di scambio tra artisti, addetti ai lavori, mentre Milano è rimasta staccata perché è il luogo del grande momento, del grande evento. Sia per i FASK che per gli Zen, andare a suonare a Milano era: “Ok, stiamo facendo uno step successivo”.
Quello che ha caratterizzato dieci anni Woodoworm è stata una linea artistica sempre mirata alla qualità. Negli ultimi dieci anni l’indie ha raccolto un po’ di tutto. Avete sempre cercato un’alternativa all’alternativa: cosa c’è in comune tra artisti che sono entrati nella famiglia Woodworm?
Marco | Sanno suonare, sanno stare su un palco in maniera importante, sono persone che mettono la musica davanti a tutto ma senza ignorare o dimenticarsi di tutto il resto. Che non abbiamo quasi mai firmato artisti che non sapevamo immaginare sopra il palco in una situazione professionale di qualità. Avremmo difficoltà a firmare artisti orientati verso un altro tipo di carriera. Alla fine firmiamo artisti che ci piacciono, è una verità molto semplice. È ovvio che deve rientrare una visione imprenditoriale che richiede costruzione, una progettualità e dialogare con altri elementi che vanno oltre alla qualità canzoni.
A | È una domanda che ciclicamente ci siamo fatti anche noi. Cosa accomuna per esempio Bologna Violenta, i Fast Animals, Motta? Inizialmente ci dicevamo è tutta gente che sale sul palco e lo spacca. Poi è evidente che hanno un percorso di lunga durata e quindi matchano bene con il nostro modo di lavorare. Alla fine sono tutte persone con le quali è bello lavorare, con le quali i giornalisti possono avere un confronto, possono dibattere su un tema, persone preparate e pronte a un confronto.
Dieci anni sono un tempo cospicuo per cambiare punto di vista. Come pensate sia cambiato il modo di raccontarvi all’industria, alla discografia, visto come molti nomi con cui lavorate sono arrivati al successo nazionale. È cambiato il modo di pensare il lavoro, di pari passo ai vari processi discografici, industriali?
M | Sarà il tema dei prossimi anni, quindi se tra dieci anni ci risentiamo ci sarà una risposta più esaustiva su questa cosa! Quello che è successo non è un passaggio avvenuto adesso dopo dieci anni, ci sono stati sconvolgimenti ogni tre anni sul modo di lavorare, l’ultimo sarà anche purtroppo di riflesso al Covid. Già dieci anni fa non c’era Spotify, per dire. Quello che vogliamo mantenere è un’identità legata a un certo tipo di lavoro sul progetto, che ha bisogno dei tempi giusti per riuscire a esprimere quello che deve esprimere. Penso che nei prossimi dieci anni continueremo a fare questo lavoro che mi piace definire “di artigianato”: la cura del particolare, definire ogni aspetto di un progetto artistico, discografico. Ovviamente con le esigenze che un’azienda ha dal punto di vista economico e soprattutto di soddisfazione di tutti quanti.
Com’è stato il vostro rapporto con le grandi realtà di distribuzione, le major, i grandi player anche internazionali? Come vi siete rapportati con questo mondo che spesso viene visto come “manipolatore”, capace di corrompere la purezza degli indipendenti?
A | Cambiando ogni tre anni il mondo discografico, siamo cambiati anche noi, e il modo di pensare al bene del progetto. A volte ci sono delle esigenze che portano a prendere determinate direzioni. Poi abbiamo rapporti aperti con qualsiasi casa discografica major, rapporti con tutti i distributori, ovviamente. Questo dialogo tra etichette indipendenti e major è sostanzialmente la ricerca di altre persone da aggiungere al progetto, altre teste che permettono di realizzare quello che da soli non possiamo, sia in termini di comunicazione come anche di risorse economiche.
M | Secondo me non cambiare idea è stupido, non vuol dire essere opportunisti, ma valutare in maniera dinamica quello che ci circonda. A volte ci siamo sentiti un po’ soli e stupidi a mantenere certe posizioni quando poi interessavano forse solo noi. Dall’altro lato c’è la necessità di fare il bene dell’artista e di guardare anche al mercato: siamo in un sistema che funziona così, non possiamo cambiarlo, quindi ci siamo dovuti adattare e avere relazioni con tutte le realtà operanti del mercato discografico. Abbiamo scoperto tante cose positive, persone capaci che oggi lavorano ai nostri dischi. Non credo che mai, ad oggi, abbiamo posto ai nostri artisti divieti di esprimersi su diversi fronti, che sia un disco, un video, un’intervista. La libertà è sempre preservata. L’indipendenza la mantieni facendo contatti nel modo giusto, con la testa giusta, anche scegliendo le persone giuste, perché poi “indipendenza” è anche uno stato mentale.
Riflessione che non si può evitare, l’elemento Covid ci ha costretto a ripensare all’economia, ai processi, ma anche al punto di vista creativo, discografico della musica. Come avete affrontato la situazione dal 2020 ad oggi?
A | Innanzitutto se vuoi guardarla in maniera positiva, il Covid in realtà sì ha sgretolato punti fermi con i quali lavoriamo, ma ci ha dato la possibilità di fermarci a riflettere su quello che stavamo facendo e sul come lo stavamo facendo e questa è una possibilità che ci ha dato questo momento di merda. Nell’ultimo anno lavorano in Woodworm tre persone in più rispetto all’anno scorso. Con l’emergenza sanitaria ancora in corso, abbiamo energie per fare uscire sette dischi comunque, tutti con strategie e una comunicazione che può tenere botta anche senza live. Certo, l’altro giorno ho parlato con Motta e i suoi musicisti dicevano che il prossimo tour è quello della salvezza della sanità mentale: “Andiamo a suonare, non ne posso più”. Tutti la vivono un po’ così dal punto di vista emotivo. Dal punto di vista discografico non c’è niente di sostitutivo, non ci sono concerti streaming che tengano, non c’è nient’altro. Un concento è un concerto, ma secondo me ci sono anche possibilità che non erano state considerate prima…
M | Fosse arrivato il Covid cinque anni fa avremmo probabilmente chiuso. Ormai invece siamo così abituati agli uragani e forse questo fa parte dell’esperienza. È una tragedia imprenditoriale, ma alla fine effettivamente abbiamo colto delle opportunità, di vario genere, su vari fronti. Abbiamo costituito due società nuove, guardato intorno, preso persone nuove, ce la siamo cavata bene… era facile abbattersi fino alla disperazione ma è durata il primo mese, poi è partito un meccanismo che fa parte di noi, cercare soluzioni di fronte a problemi. Da un certo punto di vista, ma è un’affermazione da prendere con le pinze e nel giusto senso, è stato positivo il Covid. Poi il conto corrente non ci dà ragione ma le idee buone restano quindi in fondo, poteva andare peggio.
Cosa direste ai giovani ragazzi che dieci anni fa hanno fondato Woodworm, oggi? E qual è la vostra speranza per i prossimi dieci, venti o trent’anni di carriera?
A | Io vorrei dare da lavorare a tante persone. La cosa che mi dà soddisfazione, sia per gli artisti che per i tecnici, che si fanno un mazzo incredibile. Mi dà molta soddisfazione. Pensando a come abbiamo iniziato, ci direi di fare le stesse cose, di non arrendersi quando ci sono stati momenti in cui altri avrebbero smesso. Noi non lo abbiamo fatto. È a volte molto banale, la differenza rispetto a un progetto che finisce e uno che va avanti. Decidi di andare avanti in maniera anche irrazionale perché credi che le cose poi si rimettano a posto, perché credi che quello che stai facendo abbia un valore. Quindi direi di rifare le stesse cose, tanto gli errori li devi rifare tutti, non sarebbe neanche lo stesso percorso senza errori.