Torniamo tra le righe di Marco Zanotti e del suo magico ensemble Classica Orchestra Afrobeat che questa volta ci regala un viaggio nel mondo inteso più dal lato umano che sociale. Disco denso di spiritualità e di antiche radici. Si intitola “Circles” e lo troviamo anche dentro una bella release in vinile. Preziose connessioni dentro un suono apolide nel tempo e nella geografia: su tutte la regina della musica maliana Rokia Traoré, una delle più importanti artiste africane contemporanee che firma insieme a Zanotti il brano “Ka munu munu” e poi, sempre negli spettacoli dal vivo, troviamo l’orchestra accompagnata dalla Mutoids Waste Company, il collettivo nato in Inghilterra negli anni ’80 e residente da molti anni a Santarcangelo di Romagna, in quello spazio comunitario chiamato Mutonia.
Strumenti della tradizione ma anche innesti che sembrano provenire dal nostro tempo o sbaglio?
Esatto. In questo album abbiamo inserito ad esempio uno strumento elettroacustico (se è quello a cui ti riferisci) ideato e costruito da Massimo Olla, un artigiano sardo. Uno strumento che amplifica le vibrazioni del metallo di cui è composto e questo lo trovavo molto in linea sia con lo scenario sonoro che volevamo creare in Circles e sia con il metallo che ne rappresenta l’elemento cruciale. L’acciaio delle lamelle della mbira, il bronzo del gong, l’ottone con cui Marcello Detti ha realizzato i gioielli di scena. Per il resto direi che restiamo su strumenti tradizionali, per lo più antichi come appunto la mbira e la sanza, oltre ovviamente al clavicembalo.
Perché il cerchio? E so bene che la risposta in fondo è perché nel cerchio c’è tutto di noi…
Il cerchio nelle varie filosofie e religioni è spesso associato alla cooperazione e all’uguaglianza ma c’è dell’altro: nei riti, nei canti e nelle preghiere di tante culture, sia antiche che contemporanee, il cerchio è una forma che veicola l’elevazione spirituale, la sublimazione della dimensione materiale alla ricerca di un contatto con l’aldilà, sia questo un dio o un antenato, come nel caso delle cerimonie che hanno la mbira come strumento facilitatore.
Bellissima poi questa copertina: manifesto programmatico di intenzioni narrative direbbe qualcuno.
È di un fotografo amatoriale che ho trovato per caso, scattata in una torre di raffreddamento dismessa a Ravenna, luogo che tenevo d’occhio da parecchio tempo. Me ne sono innamorato all’istante proprio per lo spessore interpretativo che induce: il cemento, l’archeologia industriale come se la stessimo guardando dal futuro e il simbolismo del cerchio diviso in due parti che si compenetrano, ying yang, una eclissi di luna, il bene e il male, il passato ed il futuro.
Dentro questo disco ci ho trovato anche la Turchia e anche il Progressiv Rock. O sbaglio?
La Turchia credo sia involontaria.. un po’ di progressive forse si, probabilmente ti riferisci a But First. È vero che, in questo album più che negli altri, non essendoci una connotazione spaziale precisa (come l’afrobeat tout-court nel primo, Guinea e Mali in Regard sur le Passe e la foresta centrafricana in Polyphonie) vi sono confluiti echi e ispirazioni molteplici e noi non ci siamo fatti scrupoli filologici. C’è un po’ di mbalax senegalese, un po’ di chimurenga dello Zimbabwe, gnawa music del Marocco, Etiopia, Mali, ma è tutto frullato e arrangiato in base al nostro organico.
C’è tanto del passato… ma del futuro?
Il futuro è un luogo (ovviamente) immaginato che ci è servito come punto di vista per imbastire il repertorio: chiediamo al passato dei consigli quantomeno per non ripetere gli stessi errori nel futuro, quegli errori che sono sulle pagine dei quotidiani ogni giorno, ad esempio.