– di Assunta Urbano
foto di Ilaria Magliocchetti Lombi-
A Fidenza, in provincia di Parma, il 28 febbraio 1976 nasceva Giuseppe Peveri, che, in seguito, a partire dal 2006 tutti avremmo conosciuto con lo pseudonimo di Dente. Quell’anno, infatti, è uscito il primo disco da solista del cantautore, intitolato Anice in Bocca.
Da lì, una strada in salita ha contraddistinto i successivi quattordici anni. Sei dischi pubblicati, le cui canzoni sono state portate in scena sui più prestigiosi palchi italiani. Un esempio, tra i tanti, quello del Primo Maggio a Roma.
Dopo Non c’è due senza te, del 2007, e L’amore non è bello, del 2009, il 2011 è stato il turno di Io tra di noi, anticipato dal singolo Saldati. Il disco vanta la produzione di Tommaso Colliva ed inserisce ufficialmente in modo incisivo Dente nel panorama musicale italiano. Un posto che, a distanza di anni, continua ad essere confermato grazie ai successivi lavori Almanacco del giorno prima, del 2014, e Canzoni per metà, del 2016. A distanza di tre anni e mezzo da quel lavoro, oggi, venerdì 28 febbraio esce Dente, un lavoro che segna un distacco dai precedenti, ma ancora tante nuove immagini da dipingere.
Gli ascoltatori appassionati apprezzano, in particolare, la sua specialità sul menù: ovvero i giochi di parole che contrassegnano il suo stile raffinato.
A partire dal 2 marzo, avrebbe dovuto incontrare i fan, presentando Dente negli appuntamenti instore. Purtroppo, gli eventi sono stati rinviati a data da definire.
Abbiamo parlato in anteprima con l’artista di Dente e di alcuni trascorsi passati, per ricostruire la sua carriera ricca di emozioni.
Oggi, nel giorno del tuo compleanno, esce il nuovo disco chiamato semplicemente Dente. Dunque, ti chiedo il motivo della scelta di questo titolo, del giorno di pubblicazione, ma soprattutto, dal punto di vista musicale perché hai deciso di “abbandonare”, seppur temporaneamente, la chitarra acustica.
Ovviamente sono tutte cose concatenate da vari motivi. Prima di tutto, il desiderio di fare un disco più contemporaneo rispetto a quelli che ho fatto in precedenza. I miei lavori degli anni scorsi avevano in comune un occhio ed un orecchio tendente più alla musica del passato, la gloriosa musica italiana degli anni Sessanta e Settanta. Ad un certo punto, mi sono un po’ stancato di quella cosa. In modo molto naturale, mi è venuta voglia di fare una cosa che rispecchiasse di più il tempo in cui vivo. Mi sembrava giusto essere più attuale.
Si percepisce ugualmente il tuo stile, anche in un lavoro leggermente diverso. Tra i singoli già pubblicati, Cose dell’altro mondo, Anche se non voglio e Adieu, quest’ultimo brano forse è quello più rappresentativo dell’album. Parliamo di questa canzone e, partendo proprio dal tema dei cambiamenti, di quanto, secondo te, come artista, è importante rinnovarsi.
È importantissimo e dovrebbe essere normale e fisiologico farlo. Cambiare e sentirsi cambiati fa molto bene, secondo me. Non mi piacerebbe vivere una vita tutta uguale, sempre fermo nello stesso posto. È indispensabile evolversi, è alla base di ogni vita sana. Non mi fido della gente che non vuole cambiare e resta sempre convinta delle sue idee. Mettere in discussione le proprie convinzioni è segno di apertura mentale ed intelligenza.
Adieu, invece, può avere tantissimi significati, me ne sono accorto già quando l’ho scritta e ancor di più riascoltandola. A me piace anche il fatto che una canzone si apra a tante interpretazioni. Mi incuriosisce sentire cosa ne pensa la gente. Non sono interessatissimo a dare la mia versione dei fatti, perché credo che a volte possa rovinare l’ascolto di qualcuno. Quella canzone, essendo molto aperta, per me ha voluto trasmettere il coraggio di non fermarsi. Quel “salire sul treno ed andare via” è avere la forza di buttarsi per affrontare le cose. Viene un po’ anche dalla mia esperienza questo concetto. Poco prima di iniziare a fare questo lavoro, mi sono buttato in questo modo. Ho preso un treno, sono andato via e l’ho fatto con la giusta incoscienza ed audacia. Credo sia una cosa sana da fare a qualsiasi età.
Sì, assolutamente, non potrei essere più d’accordo.
A mio avviso, la cosa più evidente tra questo lavoro ed i precedenti non è solo l’aspetto musicale, quanto piuttosto quello testuale. Ad esempio, L’ago della bussola è l’unica canzone che parla d’amore in un complesso comunque ricco di emozioni e sensazioni. Forse, questa è un’opera un po’ più “allegra”, se così possiamo definirla. Tra i brani, però, ha un’intensità particolare Trasparente. Come nasce questo pezzo?
Trasparente è nata da un’emozione personale nel momento in cui mi trovavo in stazione. È molto difficile anche da spiegare attraverso le parole. La sensazione di essere trasparente, di essere una goccia d’acqua in mezzo all’oceano. Forse, noi che facciamo questo lavoro siamo abituati ad essere un po’ protagonisti e quando ci capita di sentirci in quella situazione lì è molto strano. Ho pensato proprio a questa frase: “ti dirò come essere trasparente agli occhi della gente”. Io continuavo ad essere la stessa persona, ma diversa agli occhi degli altri. Quasi come se non ci fossi. Quindi, me la sono canticchiata e l’ho registrata sul telefono. Poi, quando sono arrivato a casa l’ho scritta, esattamente così come l’ho vissuta. Una sorta di piano sequenza dall’uscita dal treno all’arrivo a casa a piedi. Credo che capiti a tutti di avere dei momenti di sconforto nella vita e quelli sono i frangenti perfetti, nel mio caso, per scrivere delle canzoni. C’è qualcosa che ti entra dentro che ti fa andare fuori dai binari.
Sicuramente è un tipo di sensazione frequente tra chiunque si occupi dell’ambito artistico. Il bello è saperlo esprimere tramite la musica.
Certo, quello è importantissimo ed è molto utile.
Il tuo disco Canzoni per metà, del 2016, si apriva con il pezzo Canzoncina di cui ti cito la frase “i cantautori non vendono più”. Mi risulta inevitabile chiederti la tua opinione del panorama attuale dei cantautori italiani. E, poi, ricollegando ancora una volta il tuo lavoro appena pubblicato con il precedente, davvero “sarà la musica a cambiare il mondo”?
C’è un collegamento tra i due dischi ed è molto forte, secondo me. Il precedente chiudeva una parte, un modo di fare e di pensare la musica, e questo ne apre una nuova. Sono connessi, perché mentre mi occupavo di quel disco, avevo già in mente questo, anche se ovviamente non esistevano ancora tutte queste canzoni. Avevo in mente l’idea di realizzarlo in modo diverso, ma è stato difficile e complicato farlo. Nonostante siano due album completamente diversi, sono strettamente collegati. La scena del cantautorato credo che oggi sia vivissima. Non ho vissuto un momento più attivo di questo nella musica italiana, sia per le persone che sono sul palco, che per gli ascoltatori contemporaneamente. Dagli anni Ottanta a oggi, forse non c’era più stata una cosa del genere. Sono molto felice, facendo questo lavoro, che ci sia interesse verso il cantautorato. Sarà la musica è una battuta simpatica. Quando l’ho scritta sapevo benissimo che i cantautori vendevano ancora e vendono adesso anche di più di quanto succedeva nel 2016.
Aggiungerei meno male che sia così.
Molti sono i pezzi identificativi del tuo percorso musicale. Se dovessi ricostruire la tua carriera, quali sono, precisamente, i tre brani che selezioneresti e per quale motivo?
Interessante questa domanda, ma anche alquanto difficile. Sicuramente Baby Building, che è una canzone mia molto rappresentativa, di cui ho molti ricordi, anche perché è stata quella che mi ha fatto conoscere al pubblico. Le devo molto e ci sono affezionato tanto. Un’altra canzone che mi dipinge molto, secondo me, può essere Saldati, che ha in sé tantissime mie caratteristiche. Probabilmente è la prima traccia con un vestito più ampio che ho concretizzato. Quel disco, in più, era il primo ben fatto, perché era la mia prima esperienza con un produttore molto bravo e in gamba, Tommaso Colliva. Infatti, ora lui lavora in ambito internazionale. Ha solo vinto un Grammy, insomma. [ride ndr.] Ero in buone mani e questa cosa mi ha aperto al mondo dei professionisti. Poi, ci butterei dentro, sicuramente, Anche se non voglio, che è di Dente. È un brano molto identificativo di questo lavoro e della mia vita degli ultimi tempi. Mi piace molto quel tipo di presa di coscienza.
Ti lascio con un’ultima domanda, che parte dalla citazione, quasi “auto intervista”, interna ad un ulteriore brano, Tra 100 anni, del disco in uscita oggi, venerdì 28 febbraio: “e chi lo sa come sarò tra 100 anni”. Ecco, Giuseppe, come vede in un immaginario futuro musicale Dente?
Questa è una domanda senza risposta, purtroppo. È molto bella da fare, me la sono fatta anche io, ma è impossibile rispondere. Quello che mi chiedo in quella canzone è cosa lascerò, se le cose che ho fatto nella mia vita resteranno, se verranno ricordate, amplificate o se finirò dimenticato. Chi lo sa! È giusto ed importante farsi delle domande, anche senza avere delle risposte.
È quello che ci rende ancora vivi.
Assolutamente. Una risposta molto tecnica, ovviamente, rispetto a dove saremo tra cento anni la sappiamo benissimo: saremo sotto terra. Però, è tutto il resto che è interessante sapere, quello che lasceremo. Tutti quelli che scrivono, che usano la parola scritta come mezzo, hanno la possibilità di diventare immortali.