– di Martina Rossato –
Il 6 gennaio è uscito “checkpoint”, il primo EP di Filippo Ricchiardi, in arte più semplicemente fil ricchiardi.
In una nebbiosa (ma d’altronde cosa ci si può aspettare da Milano?) giornata di inizio anno, sono andata a trovarlo nel quartiere di Ortica, all’interno di Tucidide, ex fabbrica di ceramiche diventata una nuova realtà che accoglie residenze per giovani artisti e studi di registrazione. Vengo accolta nell’ufficio di MITE (label distribuita da ADA Music Italy) e Salad Days Records.
Appena ne varco la soglia sento che ogni pressione del mondo esterno svanisce e comincia la nostra chiacchierata su questo nuovo lavoro appena presentato live.
Mi fa molto piacere essere qui in presenza: con il Covid si è un po’ perso il contatto diretto con gli artisti e poi riprendere è stato difficile. A proposito di questo ti chiedo come è iniziato il tuo progetto.
È iniziato tutto fin dai tempi più antichi: a cinque anni ho cominciato a suonare il violino. Vengo da una famiglia molto musicale, mio padre soprattutto mi ha sempre spronato a investire tempo e impegno (e soldi, più avanti) nella musica. Il mio maestro di violino storico è anche un produttore, autore e suona la chitarra; è lui che mi ha iniziato al mondo dello strimpellare anche altri strumenti. A nove anni ho iniziato a suonare la chitarra, facevo dei concertini per mia nonna, preparavo i biglietti alle cene e poi suonavo. A dodici anni ho iniziato a scrivere le prime canzoni.
Prestissimo!
Le prime canzoni erano in inglese perché fino a un paio di anni fa avevo la “r moscia” e non volevo che si sentisse. Ho odiato la musica italiana proprio perché io non potevo farla ed ero geloso. Questo mi ha anche spronato a imparare bene l’inglese ed impararne la cultura. In quarta liceo poi ho fatto l’anno all’estero in Canada, che è stata un’esperienza molto importante anche dal punto di vista musicale.
Che esperienze hai avuto?
Lì non è come in Italia e al liceo non si fanno solo materie accademiche: cultura, sport e arte sono inclusi nella scuola. Ho partecipato a qualunque attività musicale che potessi fare. Ero parte di un coro, di una “band” (loro la chiamano così, ma da noi si direbbe orchestra) di fiati in cui suonavo le parti dell’oboe con il violino, suonavo la chitarra in un complesso jazz, ho fatto il principe Eric nel musical sulla Sirenetta e abbiamo organizzato (io e il professore di musica, che eravamo praticamente diventati amici) eventi tipo queste Coffee House dove la gente poteva mangiare e bere mentre gli studenti potevano salire sul palco e suonare un po’.
In quell’anno ho imparato a dire la “r” e quando sono tornato sono riuscito ad aprirmi un po’ di più alla musica italiana. Nell’ultimo anno e mezzo ho cominciato anche a scriverla, all’inizio ero un po’ snob nei suoi confronti ma mi sono reso conto che mi divertivo. Non abbandonerò né l’inglese né l’italiano, voglio continuare entrambi i progetti.
Dicevi che scrivere in italiano ti riporta un po’ in contatto con te stesso.
Scrivere in italiano è molto diverso. Con il fatto che devo proprio fare uno switch mentale era come se avessi due personalità diverse in Canada e in Italia. Poi con il fatto che ho cominciato a scrivere anche in italiano queste due personalità stanno arrivando a combaciare.
In “checkpoint” l’ultima traccia è un po’ un misto.
Sì, “pagine fa” è un po’ un teaser per il futuro. Il mio buon proposito per il 2023 è scrivere di più in italiano.
Come hai lavorato a “checkpoint”?
Tutti i pezzi vengono da me. Prima della produzione ci sono io con la chitarra o il piano a scrivere. Io credo molto nella collaborazione della musica e dell’arte, quindi sono circondato da persone di cui so di potermi fidare. Ad esempio il mio produttore, ma non solo. Sono contento di aver trovato queste persone perché veniamo da background diversi e ci completiamo. Una cosa che trovo molto importante è l’essere diventati amici e quindi poterci fidare. Se qualcosa non ci piace ce lo diciamo, non cerchiamo di essere gentili, anzi a volte ci trattiamo un po’ male [ride, ndr] ma poi passa e ci vogliamo bene lo stesso.
Sei anche produttore?
Io sono anche produttore e cerco sempre di essere parte della produzione dei miei pezzi ma non farei mai un lavoro interamente prodotto da me. Penso che i risultati siano migliori se si collabora con altri. Sono pochissimi i casi di progetti che beneficiano del fatto che il lavoro viene interamente da un artista che produce e scrive tutto da solo. progetto che è solo lui. Mi viene in mente Brakence, un artista americano che seguo, ma è un caso a sé.
Ora sei in Italia a registrare?
Sono qui solo per due settimane, stiamo cercando di creare materiali: interviste, concerti, abbiamo fatto due serate (a Torino e a Milano), e anche per registrare. In realtà ho il mio studio in Canada dove lavoro con il mio produttore, che ho conosciuto online. È di Torino ma non lo conoscevo e abbiamo cominciato a lavorare online prima di incontrarci, lavoriamo bene anche a distanza.
Un altro aspetto interessante è che oltre ad essere un violinista costruisci strumenti, giusto?
No, no [ride, ndr]. La mia famiglia ha una casa in montagna con una cascina piena di attrezzi e quando ero piccolo ci siamo messi, io e mia cugina, a costruire “strumenti”. Abbiamo fatto una “banda”: un contrabbasso, un violoncello, un violino… suonavano malissimo [ride, ndr]. Il contrabbasso era un secchio di alluminio con un pezzo di legno come tastiera e delle corde che, non ricordo, forse erano cordini per le scarpe.