– di Paolo Pescopio –
Gaspare Pellegatta, cantautore, pittore e artista poliedrico, originario di Laveno-Mombello (Varese), ma dalla terra natìa si trasferisce ad Amsterdam, poi a Toronto, poi a Padova, per poi stabilirsi definitivamente a Milano. Tra i suoi riferimenti artistici ci sono il punk e il movimento DIY, ma anche i Kings of Convenience e João Gilberto. Cantautore e artista figurativo (legato al mondo della pittura e del design grafico), oggi esce il suo primo album ufficiale, intitolato Post-Amarcord (leggi qui la nostra recensione del disco!).
Gli abbiamo fatto qualche domanda per approfondire il suo debut album e il suo sfaccettato percorso artistico.
Esce oggi Post-Amarcord, il tuo primo album, ma la musica non è l’unica espressione artistica che ti rappresenta. In che modo convivono le due cose?
Sono da diversi anni molto legato al mondo delle arti visive, pittura e design grafico. Per la copertina di Post-Amarcord mi sono ispirato ai primi collage di Bruno Munari e agli artwork rigorosamente geometrici di Alex Steinweiss. Autoproduco le copertine dei singoli, degli album o viceversa le produzioni accendono nella mia testa un immaginario che voglio esplorare e ribaltare su carta o su tela. In questo disco, il comune denominatore è stato il tema della distanza emotiva tra la persone nell’era digitale: il paradosso di poter comunicare sempre senza capirsi mai realmente. Ho iniziato a fare ricerca su questo tema leggendo dei saggi di Byung-chul Han e organizzando la mostra Bloody Brioches Tasty Letter, un’esposizione di quadri dove ho invitato ogni partecipante a scrivere una cartolina indirizzata a qualcuno a cui pensava spesso: ne ho raccolte ed inviate duecentocinquanta. Erano bellissime e molto sentite e indirizzate in tutto il mondo. Trovo che il modo migliore per tenere saldi i rapporti con le persone quando non è possibile vedersi sia abbattere ogni layer digitale inviandosi un pensiero fisico, una cartolina o una lettera. Un po’ come hanno sempre fatto mia nonna e mia mamma.
Parlaci di Post-Amarcord; è un album ricco di ispirazioni sonore diverse, di situazioni e immagini a spesso ambivalenti, com’è maturata la scrittura del disco?
È stato un vero e proprio casino: più viaggiavo e più collezionavo ricordi o incontravo persone fantastiche con cui era difficile rivedersi. Ho iniziato quindi ad abbozzare le canzoni mentre mi spostavo tra l’Olanda, il Cile, il Canada e l’Italia, dei racconti che secondo me rappresentavano al meglio il tema delIa distanza emotiva. Il mio telefono è un pozzo di registrazioni crudissime coi volumi saturi: appunti di melodie e flussi di coscienza salvati mentre camminavo sulle spiagge di Valparaíso, girovagavo negli aeroporti o tornavo in bici a casa tra i canali di Amsterdam. Una volta messe insieme le demo acustiche mi sono lasciato travolgere da alcuni dischi che ascolto spesso: Black Sands di Bonobo, Riot on an Empty Street dei Kings of Convenience e Xover dei Blue Lab Beats. Bossa nova, beatmaking ed elettronica sono i tre mondi che più mi hanno influenzato. Entrando in studio ho poi lavorato a quattro mani sulla produzione dell’album con Vito Gatto, violinista e producer di musica elettronica sperimentale. Mi ha ampliato gli orizzonti rendendo la scrittura del disco non solo un percorso in evoluzione ma un’esperienza creativa e di confronto molto stimolante.
Nella scrittura si percepisce un continuo sentimento di spaesamento, che è anche un po’ il tema centrale della narrazione della musica degli ultimi anni, al di là delle ultime vicende legate al Covid, cosa credi che renda la tua generazione così “spaesata”?
Non penso di essere portavoce di una generazione, ma trovo che i mezzi di comunicazione istantanea abbiano una responsabilità importante. Senza accorgersene sfuggono di controllo, passando dall’essere utili o divertenti al lasciare un’inaspettata sensazione di vuoto. È tutto talmente accessibile, edulcorato e immediato da diventare… banale, senza valore? Poi di botto ti svegli e ti chiedi cos’è imprescindibilmente importante per la tua vita. Un salto abbastanza brusco. Personalmente ciò che ha una sue lentezza intrinseca invece aiuta ad orientarsi in tutto in questo. Scattare una foto analogica o scrivere a mano un pensiero dedicato a qualcuno ad esempio richiede molta pazienza e ragionamento. Diventa quasi un rituale, assumendo un’ufficiosità diversa, impressa su un supporto fisico, con tutte le sbavature e le imperfezioni del caso. Crea un’empatia diversa. Ogni pezzo di Post-Amarcord è come se galleggiasse tra questi due mondi.
Tra le reference sonore dell’album citi Andrew Bird, lui ha registrato alcuni pezzi con il violino all’interno di una chiesa sfruttando l’acustica dell’architettura, c’è un posto al di fuori dello studio in cui ti piacerebbe particolarmente registrare dei brani?
Mi piacerebbe registrare in alcuni luoghi fuori dallo studio, scegliendoli però per la loro capacità di smuovermi dentro qualcosa, traendone ispirazione. Ad esempio, un album che mi piace di Andrew Bird è proprio I Want to See Pulaski at Night, una rappresentazione cinematografica di Pulaski in forma canzone, ispirata dalla città stessa. Su questa linea di pensiero diversi brani di Post-Amarcord sono stati prodotti a Laveno-Mombello, in riva al Lago Maggiore dove spesso mi piace tornare e perdermi tra le onde e le palme lacustri. Anche la prima versione di Varazze è stata scritta e registrata proprio a Varazze. Mi piacerebbe in futuro prendermi del tempo per tornare in Sardegna dove conservo dei bellissimi ricordi legati alla mia infanzia nella fattoria di Fiume in Altu, vicino ad Aggius, oppure registrare un live presso l’abbazia di Mont Saint-Michel, situata su di un atollo presso la costa ovest della Francia. L’ho visitata una volta mentre stavo girando l’Europa in macchina con degli amici. Un luogo epico.
Parallelamente all’uscita del tuo singolo “Yashica” c’è stata la pubblicazione sia di una fanzine, una cosa molto poco comune; come ti è venuta l’idea?
La scelta di progettare e creare fanzine è stata una conseguenza della necessità di esprimersi con un linguaggio diverso da quello di un videoclip, che è un mezzo bellissimo ma di cui sentivo di esserne saturo. Una rivista ha un sapore diverso: la tocchi, la sporchi e ti prendi del tempo per leggerla senza distrazioni. La acquisti e la fai tua. Ora che quasi tutto ciò che viviamo è digitale, pubblicare una rivista cartacea mi è sembrato l’atto più genuino e piratesco per esplodere ciò che avevo racchiuso nel singolo “Yashica”. Un pezzo strumentale che è diventato l’apripista per dare vita a un contenitore creativo e alimentarlo con i contributi di diciotto artisti e amici, che hanno voluto raccontare il pezzo attraverso il loro punto di vista e stile, facendone emergere ciò che suscitava loro a livello viscerale e creativo.
Una volta raccolti i materiali e le interviste di ogni contributore (Elasi, Senz’h, parte degli Studio Murena e Vaps, per citarne alcuni) assieme a Federica del progetto Tentacoli abbiamo creato la struttura visiva e l’impaginato della fanzine. La parte più divertente è stata poi quella delle prove di stampa e della promozione ai talk che abbiamo organizzato e ai mercatini a cui abbiamo preso parte.