– di Diego Alligatore –
Gintsugi è un’artista magica, nuova nel panorama del nostro indie-pop. Metà italiana, metà francese (vive a Grenoble) è in realtà artista internazionale. In questo suo disco d’esordio, dopo l’omonimo Ep autoprodotto nel 2021, mostra pienamente di che pasta è fatta in nove splendide canzoni cantate in inglese (a parte la prima Mon coeur, ovviamente in francese). S’intitola The Elephant in the Room, come lo strumentale che chiude il disco in maniera cinematica.
Riferimenti cinematografici si possono scorgere in più di un pezzo a dire il vero, dalla già citata Mon coeur, giocattolosa in modo dolente con echi Goblin, al pop soave d’altri tempi Lilac Wine, dove a tratti si sente il Badalamenti di Twin Peaks, alla title-track con lei al piano (come in tutto il disco), dove ci ricorda un certo Ryūichi Sakamoto.
Da citare inoltre, in questo cd bello dall’inizio alla fine, anche l’emozionante Karma Water, per il cantato angelico che ci riporta alla sua prima uscita ufficiale, la virtuosistica Outside, cantata assieme a Are You Real? tra i produttori del disco (Beautiful Losers), dai vocalizzi molto Kazu Makino, la tantrica Water Came, ecologia per corpo e mente senza slogan e non per inseguire mode, ma perché le viene da dentro, le viene dal coeur. Sentite cosa ci dice in proposito, di questo e molto altro.
Come è nato The Elephant in the Room?
Non ho mai smesso di scrivere dal primo Ep, avevo delle canzoni da parte, e volevo fare un album intero, devo dire anche per dimostrare che facevo sul serio con la musica, e che potevo fare molto in DIY. Che non ero solo “ah che bella voce angelica”, ma che potevo fare altro.
Come mai questo titolo? È anche il titolo del pezzo messo in fondo al disco?
‘The Elephant in the room’ è un’espressione idiomatica in inglese che indica un problema che tutti possono osservare, ma di cui nessuno osa parlare. Mi piaceva che fosse anche il titolo di un brano – in questo caso strumentale. Mi piacciono le parole e le espressioni che hanno più di un significato, in questo caso l’elefante è anche un elefante reale. E nel brano strumentale che porta il nome dell’album, l’andatura del pianoforte è massiccia e costante, come immagino il passo dell’elefante.
Come è stata la genesi del disco, dall’idea iniziale alla sua realizzazione finale?
L’idea è venuta da prima di pubblicare l’Ep, nel 2020. Sapevo di voler fare un album dopo. Avevo alcuni brani (come Hex, che ho scritto nella stessa estate in cui ho finalizzato la scrittura dei brani dell’Ep; Outside scritto nello stesso periodo e pubblicato nel 2021). Altri sono arrivati dopo, come Mon coeur nell’inverno 2021, To Grace a settembre 2021 mentre stavo traslocando, Water Came sempre nell’inverno 2021 durante un corso di produzione che stavo seguendo in quel periodo – ma la melodia è venuta durante l’estate, ero in montagna e mi è venuta in mente questa melodia con le parole “water came water go water came to stay, ignore my voice, there will be a price to pay” quasi in stato di trance, come se fosse l’acqua stessa che parlava. Era periodo di alluvioni, causati dagli esseri umani in modo più o meno diretto. Ignoriamo le leggi naturali, poi ne paghiamo le conseguenze. Ed ignorando le cause, eleviamo ad eroi coloro che provano a riparare i danni – che facciamo noi stessi.
Qualche episodio che è rimasto nella memoria durante la lavorazione di The Elephant in the Room?
To Grace mi è stata cantata in un sogno da Brian Molko. Mi sono svegliata e l’ho registrata.
Se The Elephant in the Room fosse un concept album su cosa sarebbe? Tolgo il fosse?
Riprendo la seconda risposta: ‘The Elephant in the room’ è un’espressione idiomatica in inglese che indica un problema (o problemi) che tutti possono osservare, ma di cui nessuno osa parlare. Quasi alla fine della registrazione, mi sembrava che il punto comune di tutti i brani fosse il fatto che parlavano di questioni di cui è difficile parlare. O forse sono che scrivo canzoni su questioni di cui mi è difficile parlare, per trasformare la vergogna, l’imbarazzo, il non detto in altro.
C’è qualche pezzo che preferisci? Qualche pezzo del quale vai più fiera dell’intero disco? Quello più da live?
To Grace è il mio preferito (naturalmente, vista la provenienza). Scherzi a parte, mi piacciono molto gli archi, e le voci così stratificate, era una cosa che volevo tanto realizzare. Mi ricorda molto Agnes Obel e il modo in cui struttura spesso i brani, con molte parti che dialogano l’una con l’altra, non un protagonista principale e il resto di contorno. È un’idea che mi piace, anche filosoficamente.
Chi hai avuto più vicina durante la lavorazione del disco? Beautiful Records o anche altri?
Ho avuto vicino colui che non deve essere nominato, si sente nella voce di Mon coeur ed anche un po’ in To Grace.
No, veramente, ho avuto vicino soprattutto me stessa. È il disco che ha iniziato la mia appropriazione di me stessa e delle mie capacità, che fino ad ora avevo molto sminuito. Ho sempre cercato delle collaborazioni che mi completino, ma mi sono spesso trovata sola. Ho imparato ad accettare la solitudine, ed è proprio lì che le collaborazioni sono arrivate e continuano ad arrivare, piano piano. Con cautela e attenzione, perché da sola, ora, ci sto bene (faccetta che sorride).
Una grossa parte della produzione l’ho fatta a casa in circa un anno e mezzo e poi abbiamo terminato la produzione delle voci e la produzione addizionale presso gli studi della Beautiful Losers.
Copertina che colpisce. Come è nata? Chi l’ha pensata così?
Giuliano Sgroi, un artista bravissimo con il 3D, aveva già un progetto con un elefante. Ha preso il suo elefante e lo ha adattato all’album. Ne abbiamo parlato velocemente – avevo in mente una donna, che vede un elefante che nessun altro vede. Lo ha tradotto in questa versione, intimista. Mi piace molto.
Come presenti dal vivo il disco?
In solo ed in trio. Sempre mantenendo la versione solo che considero completa, perché pensata in ogni suo aspetto, dal musicale allo scenico. Mi piace molto l’incontro reale con il pubblico, non solo durante le canzoni ma anche tra una canzone e l’altra. E mi piace lavorare da sola con le mie macchine, il sistema attuale comprende piano, computer, pedaliera midi, effetti e chitarra. E due microfoni.
Mi piace avere una versione in cui mi posso concentrare solo sull’aspetto artistico dell’interpretazione e per niente sulla tecnica, con musiciste (violino e percussioni) con cui si crea una sinergia.