– di Riccardo De Stefano.
Foto di Danilo D’Auria –
Giovanni Truppi è uno dei migliori autori italiani degli ultimi anni. Sferzante, ironico, stralunato, poetico, dolce e a volte spiazzante, Giovanni è uscito quest’anno col suo quarto disco solista, Poesia e civiltà, il primo con una major. Un lavoro profondo e complesso, dove Truppi opera uno scarto dalla lingua che conoscevamo, abbracciando tematiche sociali, quasi politiche, e dandoci una visione personalissima dell’oggi.
Amori che non sanno stare al mondo, poi il tour di Solo piano, dove hai calcato palchi come l’Auditorium. Cosa sono stati questi 2 anni per te?
Sono stati 2 anni di lavoro intenso, di cui ha fatto parte anche la riflessione. Solo piano è stato un tour per certi versi più esteso degli altri, siamo arrivati fino a Londra e varie capitali europee. Dopodiché sono stato silente per quasi 2 anni. Solo piano ha avuto la data a Torino ma la vera chiusura è stata all’auditorium ad aprile.
Poesia e Civiltà mi sembra un disco che si smarca dai lavori precedenti: è più maturo sia nel senso positivo del termine sia in quello negativo, rinunciando a quell’anima più naif. È stata una cosa conscia o consequenziale a questo percorso?
Entrambe le cose. Ho sentito l’esigenza di individuare delle priorità fra le cose che avevo da dire. Finora mi sono molto divertito a non mettermi paletti, nel senso che mi è piaciuto parlare sia di cose altissime che di cazzate. In questo momento avevo l’esigenza di mettere tutto me stesso a disposizione delle priorità che ho individuato. Mi sono chiesto ovviamente, come chi apprezzava i miei lavori precedenti avrebbe preso questo. Ma avevo questa esigenza.
È un disco molto sociale, molto politico. Parte con una sorta di appello alla borghesia, una riflessione sulle politiche del 2018 e si chiude con una sorta di manifesto politico, come se fosse un partito.
Quel testo non è mio, è di 150 anni fa. È un testo inglese di un antropologo statunitense che ho trovato nell’ultima pagina di L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato di Engels. Engels alla fine dell’opera cita questo testo, “Ancient society”, scritto da Lewin H. Morgan, che mi ha toccato moltissimo.
Quindi questo è un disco politico?
Certo, qualsiasi cosa è politica.
Si rimarca spesso il fatto che tu sia un autore e un cantautore, senti questo peso dell’etichetta oppure lascia il tempo che trova?
Questa mi sembra l’etichetta più ovvia. Ho sempre faticato a definire un genere musicale di appartenenza ma mi sembra che cantautore sia difficile da mettere in discussione poiché canto quello che scrivo.
Un cantautore che fa un disco politico rientra in un’ottica anni 70, che forse è quello che mancava.
Sì, tutti noi quando cerchiamo una reference a questa postura pensiamo agli anni 70, ma allo stesso tempo non mi piace né la nostalgia né rivolgermi al passato. Gli anni 70 e un certo tipo di cantautorato sono un punto di riferimento cruciale, ma ho cercato di non essere nostalgico in questo lavoro quanto di essere contemporaneo.
Eppure mi sembra che la nostalgia sia uno dei filoni del tuo percorso e di questo album. Penso alla traccia Ragazzi, che è una riflessione sul tempo perduto: siamo tutti adulti adesso ognuno nella sua specificità ma prima avevamo in comune il fatto di essere solo ragazzi.
Questo non sta a me dirlo, se è quello che ti arriva è della nostalgia va benissimo così. Sicuramente la nostalgia è una suggestione molto forte dell’arte. Ragazzi ovviamente implica una componente nostalgica ma in realtà volevo raccontare un momento che guardo con estrema tenerezza ma non con nostalgia. Mi piace questo momento della mia vita e anzi la canzone per me un modo per ricordarmi che adesso c’è questa fase della mia vita che voglio vivere. Recentemente c’è stato l’anniversario di Gaber ed è girato un video in cui c’è un’intervista, mi sembra di Enzo Biagi, che gli dice “che cosa auguri maggiormente a tua figlia?” e lui risponde “in un’epoca di imbecillissimo imperante come questa, le auguro di diventare adulta”. Questa l’ho vista dopo aver scritto la canzone e mi ha colpito come questa tematica avesse colpito già 40 anni fa un’altra persona prima di me.
Questo è un disco più adulto quindi?
Volendomi calare in questa fase della mia vita, mi auguro che lo sia, per me lo è.
In Tutto l’universo facevi una storia dell’umanità, dove dicevi che stiamo diventando adulti come umanità. All’interno di questo disco ritorna il discorso sul divino, ancestrale, sul rapporto con Dio, penso a una canzone come Adamo.
La bozza di Adamo risale a quel disco.
Però è una lettura molto diversa rispetto ad Eva. Eva parla ad Adamo e qui Adamo parla a Dio.
Ho osservato questa cosa ma non ne trarrei delle conclusioni generali, in quel momento della mia vita la figura di Eva mi ha fatto pensare a questo e la figura di Adamo a quest’altra cosa.
Un altro discorso che emerge forte è la differenza fra il discorso universale, sui massimi sistemi (Borghesia, Ancient Society) e la realtà del particolare, l’amore alla base delle persone, l’idea dei ragazzi, una sorta di autobiografismo come su I miei primi sei mesi da rockstar. Quella canzone a chi parla?
A un amico, racconta una storia.
Mi è sempre piaciuto il tuo rivolgerti a qualcuno come stesse davvero accanto a te. Dai il tu, non c’è nessuna voglia di astrarre il discorso. Pensi che sia un limite usare la canzone per una persona, ti astrae dal resto pubblico?
No, credo sia un escamotage retorico come un altro. Tanto è vero che non uso sempre questa chiave, soprattutto in questo disco, per raccontare le cose.
Come mai hai voluto mettere brani così diretti in un album così invece generalista, quale sentimento te lo fa sentire bene in questo discorso più ampio?
Mi sono posto il problema su un paio di canzoni, se avessero o meno a che fare con questo disco e sono I miei primi sei mesi da rockstar e Mia, ma mi piacevano molto quindi ho pensato di metterle pensando che il carattere di questo disco sarebbe comunque arrivato. Ho pensato anche potevano alleggerire un po’ il tono.
Poesia e Civiltà sono due concetti uno dentro l’altro. Non c’è civiltà senza poesia e non c’è poesia senza civiltà forse. L’ispirazione del titolo da cosa ti viene? È un titolo importante.
Guardando al lavoro che ho fatto in questi 2 anni: Poesia e civiltà sono parole esemplificative di quello che mi ha mosso in questi 2 anni, sintetizzanti.
Ma si può fare poesia con la musica? Guccini diceva di no.
Io su questo accetto che ci sia questo equivoco, ma chiamare il disco così non vuol dire che nel disco ci sia poesia. Vuol dire che la poesia, che è un concetto ovviamente personale, e la ricerca della poesia mi ha mosso e sono stato teso mentre facevo questo lavoro.
Sulla civiltà il discorso è più ampio. Come avverti questo periodo storico in cui tutto viene detto e confermato sui social e la politica sempre più abbassata nel linguaggio? Tu che sei un artista e traduci la realtà circostante, senti l’esigenza di farti carico di questa situazione o di raccontarla?
Nel mio piccolo sì ed è uno dei motivi per cui ho scelto di fare un disco del genere e di abbandonare un certo tipo di linguaggio. Proprio in virtù di questo abbassamento del linguaggio, anche se ho dovuto sacrificare delle cose in cui mi rispecchio e in cui credo che ho utilizzato per altri motivi che ritenevo altrettanto importanti, in questo momento è importante per me tendere a un innalzamento del linguaggio, ho pensato che fosse questo che volevo buttare nel mondo.
Come mai la scelta di puntare sul singolo L’unica oltre l’amore che è atipico come singolo, anche se parla di cose universali?
In realtà per l’etichetta discografica il singolo vero e proprio è Borghesia, ma siamo stati tutti d’accordo nel buttare fuori una prima cosa che fosse di introduzione al disco, e questa per me è la canzone più importante del disco, quindi sono molto grato che mi abbiamo fatto buttare fuori una canzone di 6 minuti come prima cosa.
Come mai è la canzone più importante del disco?
Perché era importante dire quello che ho detto in questa canzone, ed è la canzone alla quale ho lavorato di più, credo di non aver mai lavorato così tanto a una canzone.
Sbaglio o questo è un disco che segna un ritorno alla canzone in quanto tale, come nel tuo primo lavoro?
Era più ortodosso nella forma, quindi sì. Volendo lavorare su questo aspetto del linguaggio, sulla bellezza e volendo anche inserire una serie di tematiche in modo netto rispetto ai dischi precedenti ho sentito l’esigenza di utilizzare delle strutture più formali, accoglienti.
Come pensi che un diciottenne di oggi, diciamo un giovane trap boy, dovrebbe ascoltare Poesia e civiltà? Con quale spirito critico?
Non mi aspetto né mi auspico uno spirito critico. Per me l’esperienza con le canzoni è stata ludica prima di tutto, non di evasione per forza, ed è stata un’esperienza molto imparentata con il dialogare con un amico. Quindi innanzitutto mi piacerebbe se fosse possibile poter instaurare un dialogo con una persona di così tanti anni più giovane di me. I diciottenni saranno ventottenni e trentottenni quindi se quello che sto dicendo ha un senso ci si può arrivare anche non immediatamente. Sono felice se vengono ai miei concerti ma rifiuto di pormi questo tipo di problema.
Hai parlato di Engels. Un altro libro e un autore di un disco che ti ha influenzato?
Gli ascolti contemporanei che mi hanno più influenzato sono Sufjan Stevens e Skeleton Tree, mi sono innamorato di Jack London, so che è molto ottocentesco, c’è un tipo di idealismo che è fiorito in quel secolo che mi ha molto affascinato. Quando leggi una cosa bella come per me è il testo di Ancient Society e vedi che uno 150 anni fa era così ottimista riguardo quello che l’uomo avrebbe fatto da parlare di rinascita e ti senti proprio di dire “dai facciamo una canzone su questa cosa per dare un altro giro a questa ruota”.