– Assunta Urbano –
Chi ha detto che il rock è morto? Sarà vero o no? Di certo, se siamo ancora qui a parlarne ci sarà una ragione. Ne sanno sicuramente qualcosa i Panta, che fanno di questo concetto il loro mantra.
La band si forma nel 2015, tra gli splendidi colori della Capitale, da un’idea del leader Giulio Pantalei, alla voce e alla chitarra. Ad accompagnarlo in questo viaggio ci sono Davide Panetta al basso, Giordano Nardecchia alla chitarra e James Rio alla batteria.
Il percorso discografico ha inizio nel 2016 con l’EP Cause/Effetti, per proseguire nel 2019 con la pubblicazione dell’album d’esordio Incubisogni per MEI e Goodfellas. I dieci brani del disco passano poi sotto la supervisione di Steve Lyon, che nel corso della sua carriera ha lavorato con artisti del calibro di Depeche Mode e Cure.
Grazie a ONE, la ong di Bono Vox – di cui il cantante è stato eletto “Youth Ambassador” – lo scopo dei Panta di costruire un metaforico ponte tra Italia e Gran Bretagna sembra sempre più concreto. Tra le tante esperienze, lo scorso anno alcuni brani della band hanno avuto la fortuna e l’onore di essere suonati all’Abbey Road Institute e di passare per gli Abbey Road Studios, un vero luogo di culto.
Ci sarebbe molto altro da dire sul percorso musicale del gruppo. Per tal motivo abbiamo sentito telefonicamente Giulio Pantalei, per perderci nei suoi racconti riguardo la canzone appena uscita, lo showcase a Le Mura del 27 febbraio ed alcuni progetti futuri. Senza dimenticare gli aneddoti del tutto surreali.
Mercoledì 3 febbraio è uscito il nuovo singolo dei Panta, intitolato C’è ancora un brindisi da fare. Come prende vita questo brano?
È una canzone nata dalla strada. Detto così, può sembrare strano, però lo stare chiusi in casa di questi mesi forse ha alimentato ancora di più tutto quel senso di oppressione dell’avere a che fare ogni giorno con le cifre della pandemia, con l’economia che crolla e con i dati legati al mondo dei social. Ad un certo punto, in una camminata di quelle esistenziali è venuto fuori un grandissimo, ma anche gioioso, vaffanculo! In realtà, ci sono tanti motivi per fare un brindisi a qualcosa. Questo gesto prevede che ci siano a farlo delle persone umane e non dei numeri. Così è venuto fuori il ritornello. L’idea iniziale mi è venuta a settembre. L’ho scritta un po’ di pancia, come reazione a tutto ciò che stiamo vivendo, e poi con la band l’abbiamo registrata allo studio di Ostia Antica.
Lo scorso anno i vostri brani sono arrivati addirittura agli Abbey Road Studios, un sogno per qualsiasi musicista o amante della musica già solo poter entrare. C’è ancora un brindisi da fare non rientra in quelle session, ma ci racconti come hai vissuto questa esperienza?
Da musicista sono stati i giorni più belli della mia vita! Mai avrei potuto neanche immaginare una cosa del genere. Per me, come fan dei Beatles, quel posto significa tanto. È così fin da bambino, quando mio padre mi faceva ascoltare Abbey Road le prime volte. Dal vivo, è stata professionalmente un’esperienza incredibile. Ho lavorato al livello più alto che sia mai potuto esistere sulla faccia della Terra. Ho avuto l’onore di andare due volte lì, una volta all’Institute, mentre l’ultima proprio all’interno degli Studios. È un’emozione fortissima. Da calciatore, è come se tu stessi giocando il tuo campionato e all’improvviso ti chiama il Barcellona e ti chiede di entrare nella loro squadra il giorno dopo.
Quasi troppo bello per essere vero.
È esattamente così. Ogni minuto tra quelle mura storiche è stato fonte di ispirazione costante. È concepito come una sorta di museo all’inglese, sullo stile della Tate Modern, ma al posto dei quadri ci sono le foto di tutte le persone che hanno registrato e suonato lì. I Beatles, gli Oasis, i Radiohead, Pavarotti, Maria Callas, persino la colonna sonora di Star Wars. E proprio perché si sta facendo arte, ti vietano di scattare foto. In fin dei conti, è una proprietà privata e il cancello è chiuso. Dentro potrebbe esserci tranquillamente Florence Welch a registrare il disco nuovo con i Florence and the machine.
I pezzi saranno inseriti in un EP o in un disco?
Assolutamente sì, sempre come Panta abbiamo in cantiere questo secondo disco e speriamo di farlo uscire il prima possibile. In questo momento, fare previsioni è molto difficile. Ma la speranza è quella di riuscire a tornare lì a finire le registrazioni, covid e brexit permettendo.
Questo traguardo potrebbe intendersi come il raggiungimento del vostro obiettivo. Il percorso dei Panta ha avuto inizio nel 2015, diventando operativo nel 2016, con l’intento di costruire un metaforico ponte tra l’Italia e l’Inghilterra. Come nasce questo progetto?
Ti rispondo con piacere! I Panta hanno esordito sul palco nel novembre del 2015, proponendosi come live band. Dopo aver girato tutti i posti in cui potevamo suonare, grazie alle vie misteriose del rock ‘n’ roll, sono iniziate a succedere una serie di cose che ci hanno fatto da carburante per crederci. Fondamentalmente, quelli nati dopo gli anni Novanta come noi hanno come riferimento il rock, l’indie rock e tutti i sottogeneri. All’improvviso è sembrato che questa cosa stesse scomparendo. Noi abbiamo iniziato nel 2016, quando c’è stata l’esplosione dell’indie italiano. Ci siamo affacciati alla scena in quel momento, ma siamo una realtà molto distante. Per questo motivo il nostro brano manifesto “Così è abbastanza indie?” è provocatorio. Fino al 2014, il termine “indie” era legato agli Arctic Monkeys, ai Franz Ferdinand.
La famosa madrepatria, da dove tutto ha avuto inizio, soprattutto dal lato musicale, ma non solo. Il Regno Unito ha visto nascere e crescere pezzi immortali insieme agli artisti che li hanno creati. E riguardo a queste canzoni indelebili, ce n’è una che ti emoziona così tanto che vorresti fosse stata scritta e realizzata da te?
Ce ne sono tante! La prima a caldo che mi viene in mente è “Strawberry fields forever”. È in grado di essere il punto di convergenza tra la purezza e l’ispirazione del songwriting. Tutta la storia personale è rivissuta anche alla luce della ricerca che John Lennon sta compiendo come artista. Quella canzone è divisa in più parti: inizia in un mood da cantautorato, poi evolve fino a che tutti gli strumenti si sommano, ma non si sovrastano l’un l’altro. Diventa una perla che ti fa comprendere le infinite possibilità del rock ‘n’ roll.
Chi ti conosce ha il sentore che i tuoi racconti siano falsi, per quanto surreali, anche perché riguardano personaggi come David Lynch, Carlo Verdone e Alex Turner. Se dovessi scegliere un solo aneddoto tra i tuoi ricordi, che supera di gran lunga gli altri, quale sarebbe?
Non posso non dirti il primo tra tutti, quello a Parigi con David Lynch. È stato l’episodio che ha dato il via ad una fase di rinascita della mia vita e mi ha portato a formare i Panta. Dopo aver avuto un indirizzo a Lucca Film Festival nel 2014, che io pensavo corrispondesse ad una galleria d’arte, sono andato in Francia da una mia amica e le ho chiesto di accompagnarmi lì. Era un periodo in cui mi sentivo abbastanza perso. Ecco, arriviamo nel posto che mi avevano segnalato e c’è un condominio. All’improvviso esce dall’edificio il signore delle pulizie – che penso ringrazierò sempre – e con un po’ di stentato francese gli chiedo se dentro ci possa essere qualcosa di simile ad una galleria d’arte. Mi parla, in realtà, dell’esistenza di una sorta di laboratorio, ma privato. Io sono molto timido, ma quella mattina avevo la sensazione che sarebbe successo qualcosa, quindi insisto e gli chiedo se c’è la possibilità di entrare. Mi trovo davanti a questa porta con un bollino rosso, non c’è neanche il citofono, e già questo mi ricorda Twin Peaks. Mi viene ad aprire il direttore, che per fortuna parla inglese. Gli spiego tutto e lui mi rivela che quello è il posto in cui hanno inventato la tecnica della litografia dell’arte occidentale. Un luogo in cui hanno dipinto Picasso, Paul Klee, de Chirico, Dalì. E poi mi dice che dentro in quel momento c’è David Lynch in persona che sta dipingendo, perché quello è il suo laboratorio quando si trova a Parigi. È stato super carino a farmi entrare. La stanza piena di dipinti di Lynch con lui al centro della sala. Ho parlato per venti minuti con quello che è il mio artista vivente di riferimento sulla faccia della Terra. Mi è cambiata completamente la vita, soprattutto perché abbiamo parlato di Meditazione e mi ha introdotto in questo mondo. Ormai sono passati quasi sei anni e sono rinato. Pazzesco!
È una storia bellissima, ma sempre surreale.
Prima parlavamo di live, i Panta hanno annunciato a sorpresa che si esibiranno a Le Mura in uno showcase esclusivo sabato 27 febbraio. Che tipo di evento sarà?
Borderline! Forse questa è la parola giusta [ride ndr.]. Ci mancano talmente tanto i live che cerchiamo di creare delle formule che possano essere prima di tutto in rispetto delle normative, ma anche che ci permettano di iniziare a ricreare delle forme di aggregazione musicale, non di assembramento. Siamo molto legati a Le Mura, è il posto in cui abbiamo fatto il nostro primo sold out. Ci sarà un’intervista e magari ci scapperà anche qualche pezzo unplugged. Cerchiamo di trasmettere un messaggio di resistenza.
Ritorniamo al vostro singolo pubblicato di recente C’è ancora un brindisi da fare. Dovendone scegliere una sola, a che brindiamo?
Questa è una domanda molto molto bella! La prima cosa che mi viene in mente è l’attitudine, che è qualcosa che ha a che fare anche con l’identità. Questo brano è un po’ un brindisi a noi stessi, a ciò che abbiamo conservato in questi anni. Mentre tutti facevano i cantori di sventura, dicendo “il rock è morto”, noi rispondevamo che non ci interessava e volevamo fare ciò che ci piace. Ecco, per questo attitudine.