– di Giacomo Daneluzzo –
Ibla, nome d’arte di Claudia Iacono, classe 1997, nasce ad Agrigento e nel 2015 ottiene grazie a un concorso l’accesso al CET di Mogol e a diciannove anni scrive e compone le sue prime canzoni; in questi anni si esibisce in più di cinquecento concerti live. Nel 2018 entra nell’Acadmey di Isola degli Artisti e vince il premio assoluto e il premio come miglior interprete. Viene selezionata per partecipare all’edizione 2020 di Amici di Maria de Filippi, in cui arriva alla fase finale. “Libertad” è il suo pirmo singolo ufficiale, presentato durante il programma; a questo seguono “No te gusta” e “Lontano da qui”.
Piacere di conoscerti, Ibla! Come va?
Piacere mio! Bene, bene.
Allora, questa è una domanda che bisognerebbe evitare, nelle interviste, ma non ho trovato la risposta sul web: da dove viene il tuo nome d’arte?
È legato alla mia terra. Quando ho deciso di dare un nome a ciò che scrivevo e a ciò che davo sul palco volevo un nome che mi rappresentasse: niente ci rappresenta più della nostra terra. Ho un legame molto forte con la Sicilia, dico sempre che ho un cordone ombelicale che non sradicherò mai. Il nome “Ibla” usciva costantemente nella Sicilia arcaica: nelle colonie greche, nel nome dei Monti Iblei, nel nome di un’antica dea della primavera e dell’inferno, due opposti, idea che riscontro nella mia musica; questo è lo spunto che mi ha incuriosito di più.
Quali sono gli aspetti della tua terra, la Sicilia, a cui ti senti più legata?
Sono dell’idea che la sicilianità in me si veda tantissimo. Siamo passionali, siamo fuoco: credo che questa, sul palco, sia una delle mie principali caratteristiche. Mi sento coinvolgente e accogliente, sul palco.
I testi delle tue tre canzoni che sono uscite sono per metà in italiano e per metà in spagnolo, in una commistione totale tra queste due lingue – non ci sono parti in italiano e parti in spagnolo, ma sono proprio sovrapposte. Come nasce questa scelta testuale?
In realtà io non ho mai fatto una scelta ed è questa la bellezza. Tutto parte da “Libertad”, il primo pezzo che ho scritto in questo genere. Era un periodo orribile. Avevo la necessità di evadere da tutto, perché mi sentivo davvero male. Io ho vissuto molto male il lockdown, non sto mai ferma, odio la monotonia e quando qualcuno m’impone qualcosa: era un mix di cose che odio e avevo questa necessità. Allora presi la chitarra e mi uscì questa melodia, con un testo ancora non definito; dicevo parole a caso in spagnolo, spesso faccio così: creo una melodia usando il finto inglese o il finto spagnolo. Non ho frenato questa cosa, se era uscita così era perché doveva uscire così. Dalla spontaneità, dalla verità delle cose, nasce l’originalità, secondo me. Quando andiamo a segnare, scrivere, preparare le cose non esce la verità. La mia fortuna è stata liberarmi da tutti gli schemi e da tutto ciò che oggi la discografia ci impone.
Che rapporto hai con la lingua spagnola? Come mai proprio lo spagnolo?
Ci sono tanti fattori che mi legano allo spagnolo. Parte tutto da una mia passione incredibile per le sonorità e per la cultura spagnole. Poi ritrovo tantissimo della Spagna nella musica folk siciliana: noi siamo stati colonizzati per duecento anni dalla Spagna, quindi tutta la musica folk deriva da lì, da un misto di arabo e spagnolo. Poi io ho la fortuna di avere un nonno che ha lavorato a Santo Domingo per degli anni, girando per tutto il Sud America: si portò con sé dei dischi in vinile di Carlos Puebla e di altri artisti di musica folk sudamericana. Da quando ho tre anni ascolto questa musica e questo viene fuori.
A livello di sonorità, anche se le tue canzoni sono fortemente contaminate da sonorità pop contemporanee, soprattutto in “Libertad” si sente un’influenza di quella sonorità folk che, sentendole, ho pensato fossero spagnole, ma che ora mi stai dicendo che sono legate più alla Sicilia, no?
Sì, esatto. Ho anche fatto delle ricerche su una canzone siciliana degli anni del primo dopoguerra, una canzone vecchissima, che io conoscevo – perché amo la musica folk, la cerco e la studio; girando su Spotify e cercando musica folk antica spagnola trovai la stessa identica canzone però con il testo in spagnolo. In realtà è qualcosa che ci ha lasciato la Spagna; quel brano è stato tramandato di generazione in generazione, ma è la stessa canzone e ci sono delle frasi proprio uguali.
Sei una specie di antropologa della musica.
Mi piacciono tantissimo le cose antiche. Dobbiamo partire dalle cose vecchie per crearne di nuove e originali. Senza il passato non credo si possa creare qualcosa di nuovo, quindi per me è molto importante andare alla ricerca di quelle cose.
È come se ci fossero due anime contrapposte, una che fa uscire in modo spontaneo e libero quello che sente, l’altra che invece è improntata sulla ricerca, sull’andare a scavare a fondo.
Io credo che sia così in generale, nella scrittura di una canzone: ho bisogno di ascoltare trecento miliardi di canzoni prima di scrivere una cosa nuova, perché vuoi o non vuoi le canzoni ti influenzano; prendi solo le cose che ti piacciono, ma in maniera naturale. Se stai chiuso in una bolla e non ascolti musica scriverai sempre le stesse cose.
Che riferimenti musicali e/o lirici hai, in questo processo di assorbimento da stimoli esterni?
Io ascolto veramente tutto: dalla musica folk araba, di cui ascolto le sonorità per arricchire le melodie, alla musica folk in generale. Ho un grandissimo amore per il cantautorato italiano. Ho un rapporto meraviglioso con il cantautorato italiano, perché penso che diamo un’importanza particolare al testo, cosa che altrove non c’è. Siamo poeti nelle canzoni ed è una cosa bellissima.
A proposito di questo ho notato che in “Libertad” c’è una parte del testo che dice: «Amor que viene, amor que va». C’entra “Amore che vieni, amore che vai” di De André, vero? Non è un caso?
Esatto (ride, ndr). C’entra tantissimo, è fatto apposta. Mi è venuto naturale, perché il testo comunque parla di quello. Però ho pensato, mentre lo scrivevo: “Cazzo, De André!”.
Nel 2020 Amici è stata un po’ la tua vetrina: cosa pensi di quest’esperienza televisiva che hai vissuto e più in generale del mondo dei talent?
Non prediligevo tanto i talent, a essere sincera. Per il mio modo di fare musica sono piuttosto distante da quel mondo lì, più fresco e più “piccolo”, come età, seguito da ragazzi molto giovani. Magari quando fai un pezzo di De André – cosa che ho fatto – o non ti capiscono o lo apprezzano perché è una cosa che non conoscono e riescono a trovarci la bellezza; è un’arma a doppio taglio, per me. Però in generale Amici è stato molto importante, perché siamo in un periodo in cui la musica si è fermata, purtroppo, quindi in questo modo ho continuato a fare esperienza, che per me è la base di tutto, al di là dello studio: la pratica, la gavetta, è fondamentale. Poi Amici mi ha lasciato molta consapevolezza di me: ero consapevole dei miei limiti, ma ho capito che i miei limiti non esistono e che posso farli diventare “unicità”. Questa è una cosa importante che mi ha lasciato quest’esperienza.
Poi il tuo percorso nella discografia è iniziato con Amici, no?
Esatto, io nella mia vita ho fatto solo live, ma non avevo mai pubblicato un pezzo su Spotify, prima. Ho fatto per quattro anni l’artista di strada e ho suonato ovunque: mi mancano solo i funerali. Ho suonato anche per una farmacia.
In che senso per una farmacia?
C’era l’inaugurazione di questa farmacia grandissima, loro mi amavano e mi hanno chiesto di suonare. L’ho fatto ed è stato molto bello! Suonando in posti diversi conosci molte persone e riesci a trovare una comunicazione sempre più efficace. Mi mancano solo i grandi palchi, come l’Arena di Verona. La musisca ha dentro una verità incredibile e quello che assorbi viene fuori, quando la gente ti vede. Prendere i microfoni, smontare i microfoni, prendere le casse, mettere tutto in macchina, spostarsi, fare quattro o cinque concerti al giorno, per le strade, per i locali… Queste sono cose che ti formano tantissimo, sono gavetta. A chi comincia a fare musica vorrei dire di andare nella strada, di fare la strada. Per me è stato un miracolo.