– di Roberto Callipari –
“Bouganvillea” è l’ultimo EP di Tatum Rush, ed è un lavoro molto interessante. Quattro brani, tre più uno, che variano fra retro pop, tropicalismo e suoni ultramoderni alla ricerca di un suono che sia più genuino, proiezione diretta del gusto e dello stile di un artista che non è facilmente incasellabile, e va anche bene così.
A fronte di un lavoro così particolare, lo disturbiamo in riva al lago, dopo le intense giornate promozionali che arrivano dopo l’uscita, per farci raccontare e spiegare meglio la sua visione della musica e del lavoro.
La prima cosa che ha catturato la mia attenzione è stata sicuramente la citazione a Battisti, in copertina. Com’è nata quest’idea?
In verità quel disco di Battisti [“Una donna per amico”, ndr] è l’unico che posseggo in formato “fisico”, devo dire, ed è rimasto nella mia auto per dei mesi, è stato un album che mi ha accompagnato durante un periodo recente e quando mi sono ritrovato a Rio con questi pezzi finiti ero in uno stato d’animo che mi ha suscitato quella scelta lì, perché rappresenta molto il mio quotidiano, perché passo molto tempo – se non tutto il mio tempo – anche in compagnia della mia compagna e musa creatrice, quindi mi sono sentito come fossi in quella scena – quasi visto dall’esterno, un po’ così come una proiezione accidentale, e mi sono detto che ci stava di riprendere quell’immagine, perché in un qualche modo fa anche omaggio a un certo approccio che ho avuto alla musica quindi anche un po’ nostalgica, un po’ a dei suoni forse non totalmente contemporanei anche se ce ne sono. Magari è stata un po’ anche un’idea casuale che è uscita così, è uscita naturale, ed è stata anche realizzata in modo naturale, è stato per caso che è uscita così bene, così fedele, no? L’idea iniziale era “Proviamo a fare una cosa spontanea”, poi abbiamo trovato proprio per caso un luogo che rassomigliasse proprio a quel posto, e così…
Com’è nato l’EP?
Arriva da un’urgenza da parte mia ma non solo, anche della Label di fare uscire qualcosa che seguisse l’uscita del disco, una sorta di richiamo alla mia esistenza, no?, nel dire “Ok, ho fatto uscire un disco adesso non facciamo passare un anno, ecc.”. Per di più, per il disco ci sono tanti pezzi che non sono neanche potuti finire nella tracklist, ho dovuto fare delle scelte, dei sacrifici, escludere dei brani, quindi avevo come un po’ un retrogusto di qualcosa che non era stato ancora completamente detto, verbalizzato, e produrre questo lavoro è stato un modo anche di non bloccarmi con l’uscita di “Villa Tatum” che era uscito già solo a ottobre – novembre, tenendo così il ritmo alto. Poi alla fine è uscito qualcosa di inaspettato, qualcosa che ha un filo logico, che ha un filo di ambientazione che non avevo per forza previsto e che però ha dato un buon quadro, diciamo, al mio stato d’animo, al mio stato di creatività.
Volendo dare delle reference che stanno dietro a questo EP, sembra quasi che tu sia stato molto influenzato da un certo pop, sicuramente retrò, come quello di artisti come Battisti o Enzo Carella, ma anche Alan Sorrenti. Ti ci ritrovi o c’è altro?
Quando ho scritto il disco in verità non è che ho pensato direttamente a degli artisti come quelli che hai citato, perché quando scrivo non penso mai a dei riferimenti precisi… Anzi, mi correggo: sì, ho pensato a delle referenze che però non c’entravano nulla con l’Italia! Per esempio, per il pezzo con Popa siamo partiti da delle referenze tipo Julio Iglesias, per esempio, o delle cose brasiliane tipo Marcos Valle, delle cose di boogie brasiliano degli anni Ottanta, queste erano delle referenze musicali dirette. Poi diciamo che, producendo il disco, scrivendolo, sono uscite delle cose accidentali che hanno fatto pensare anche a me a delle cose italiane che però sono uscite un po’ accidentali, per esempio il brano “Malegria” mi ha fatto pensare al Rino Gaetano di “Sfiorivano le viole”. In verità poi a Battisti e Carella non ci ho neanche fatto un pensiero, almeno non in modo attivo, piuttosto ci ho pensato quando mi è venuta l’idea della copertina, però se magari hai sentito un Battisti è possibile che sia stato semplicemente un assorbimento della sua poetica negli anni, però poi non ho fatto nessun tipo di richiamo volontario né a Battisti né a Carella e né ad Alan Sorrenti; per quanto riguarda quest’ultimo, l’associazione fra me e Alan Sorrenti è nata un po’ per caso perché abbiamo fatto questa cover con Ceri, però poi abbiamo lavorato insieme con Alan su uno dei pezzi del suo ultimo disco, però a parte “Figli delle stelle” io non avevo mai veramente ascoltato Alan Sorrenti quindi è stato un po’, anche lì, accidentale.
Hai collaborato con Ceri e in questo lavoro anche con Golden Years, entrambi producer di tutto rispetto, ma nel tuo ultimo EP sei anche produttore. Sulla base di tutto ciò: qual è il tuo rapporto con la produzione?
È un rapporto difficile in realtà. Io non sono sempre stato produttore, ho sempre provato ad essere produttore, e attraverso Ceri sono diventato anche un produttore, nel senso che ho potuto assistere a come si fa, a come si lavora e grazie a lui sono arrivato a un livello di abilità che mi ha permesso di essere soddisfatto di quello che riesco a fare, ma, al tempo stesso, da quel punto lì in avanti diventa anche più difficile lavorare con i produttori, perché sai quello che stanno facendo e allora puoi e vuoi intrometterti più facilmente. Però la cosa più difficile da imparare per un artista, un produttore o per qualsiasi persona in generale penso sia lavorare con la gente, lavorare e semplicemente relazionarsi alla gente e quindi anche se sai quello che sta facendo la persona davanti a te devi trovare il modo, le parole e l’attitudine giusta per poter passare dei giorni insieme senza creare delle frizioni anzi, creando delle situazioni che siano favorevoli, no? È un’arte di comunicare, di stare con la gente.
A proposito di condividere un percorso con altri artisti, in Bouganvillea ci sono anche dei featuring. Come sono nati?
Uno è in “Rodolfo” con Lulù, che è la mia compagna da molto tempo, quindi quello è stato un incontro fisso con lei, mi sembra normale che abbia fatto un brano con lei. Con Popa è stato più un “fare la corte”, le ho fatto una corte abbastanza lunga, abbastanza complessa fra artisti che non si conoscono, che si conoscono attraverso lavori, ed è stato prima a distanza, poi abbiamo dovuto conoscerci di persona, anche se avevo già in mente di fare una cosa con lei, però prima di poter proporre una cosa effettiva bisogna prima preparare il terreno, bisogna conoscersi, bisogna esser sicuri che ci sia una buona intesa a livello anche semplicemente caratteriale, e solo dopo aver passato quelle fasi lì che hanno promesso assolutamente una buona collaborazione è stato molto naturale, ci siamo scambiati delle referenze, delle idee e abbiamo trovato subito un punto di incontro. Però anche lì è soprattutto una cosa umana, una cosa di trovare il modo piacevole di comunicare, di interessi comuni, inizi a trovare lo spirito comune poi la musica viene da sé.
Una cosa che mi ha sicuramente colpito è il fatto che, in questo EP, tre brani sembrano “lavorare meglio” assieme, provenendo dallo stesso mondo sonoro – quel pop un po’ retrò di cui parlavamo prima, per intenderci, mentre l’ultima traccia suona decisamente moderna, magari definibile anche “urban”. Come succede che in così poco tempo, perché l’EP è decisamente più breve di un album medio, si possa cambiare così tanto?
Questo succede grazie (o malgrado forse) a una difficoltà di definire dei limiti dei miei interessi musicali: sicuramente sono affascinato da delle sonorità che sono più legate a dei dischi di alcuni generi musicali o degli anni, delle correnti musicali, musica brasiliana o qualsiasi cosa, però sono anche affascinato da delle sonorità più moderne, più contemporanee, e quindi non mi sembrava una buona idea limitare stilisticamente un EP a un genere specifico, ma piuttosto creare una narrativa attraverso le immagini, attraverso le evocazioni che faccio attraverso i testi anziché attraverso la stilistica musicale.
Questo lavoro che tu hai rilasciato da poco è come se proponesse una visione diversa per il pop, molto più divertito e che può suonare in un altro modo, considerando che nel panorama italiano le produzioni sono un po’ appiattite ultimamente, i produttori sono sempre quelli e forse manca un po’ di coraggio. Invece qual è la tua chiave, come sei arrivato a questa veste?
È stato sicuramente il fatto di produrmelo da solo, il fatto di non lavorare con altri produttori che magari hanno altre idee, magari delle idee prestabilite sulla musica – non mi riferisco a Ceri, però dico in generale. Il fatto che tu debba fare una cosa da solo, e magari anche la tua ignoranza rispetto a come dovrebbero suonare alcune cose rispetto a un contenitore, fanno sì che tu faccia una cosa diversa, proprio per l’ignoranza rispetto a quella che dovrebbe essere una norma o un suono nell’aria. Considera che la mia ignoranza si estende anche a tutte le uscite, perché ho un ascolto intermittente su quello che potrebbero essere le nuove cose italiane perché cerco di ascoltare sonorità che mi portino altrove. Quindi sì, penso che l’importante è che ci sia un po’ come un’ossessione personale di cercare qualcosa che ti stimoli, no? Ascoltavo dei brani, ad esempio delle cose brasiliane, e quel suono lì mi ossessionava, e probabilmente se fossi andato direttamente da un produttore italiano che è in voga in questo momento me l’avrebbe tradotta in un linguaggio italiano. Il fatto che non ho fatto questo, il fatto che ho dovuto attraversare tutta una serie di difficoltà per farlo io fanno sì che ho trovato – ancora una volta – accidentalmente un suono che magari non è quello solito.
Come sei riuscito a conciliare il Tatum Rush “artista” col Tatum Rush “produttore”?
Per me la produzione, cioè quello che è la musica, separata dal testo, fa parte dell’arte in sé, nel senso non faccio questa separazione: per me il testo, la voce, è dipendente dal suo vestito, dagli accordi, dalla scelta degli accordi e dalla scelta dei suoni eccetera. È un po’ come quel brano brasiliano “Samba di una nota sola”, dove la nota è la stessa però sono gli accordi che ci stanno attorno che la fanno diventare una canzone. Quindi per me tutto quello che è la produzione non è meno importante delle parole e della mia voce, nel senso: fa parte tutto della stessa espressione artistica.
Cosa ci possiamo aspettare adesso? Come continuerà questo cammino?
Guarda mi becchi nel primo giorno dove ho un po’ di calma davanti a me, dove posso cominciare a riflettere su cosa vorrei fare adesso: un po’ la tempesta che viene con l’uscita di un lavoro così è passata, quindi tutta la comunicazione, tutte le faccende che porta la promozione di un lavoro sono scemate. Inoltre ho avuto anche un po’ di concerti, un paio proprio ultimamente, quindi avevo la testa a quelle cose lì. Sono molto soddisfatto di questo ultimo lavoro perché sono riuscito, in qualche modo, a trovare una specie di essenza che stavo cercando, di me stesso, e vorrei provare a continuare a scavare questa direzione qua. Secondo me ci sono parecchi altri brani che ancora devo scrivere e che soprattutto mi diverte scrivere, e sarà una direzione amplificata di quello che era questo EP, in una ricerca senza troppi compromessi a livello musicale, stilistico, e molta scrittura, molte immagini. Però sì: bisogna rimettersi al lavoro.