– di Yna –
Dove sta andando la “forma canzone” oggi? Che prospettiva c’è nel 2021 per il cantautorato denso di significato da una parte e le paillettes della tradizionale canzone pop dall’altro? Nonostante queste domande possano risultare i sottotitoli di un film già visto, in realtà sono quesiti che tutti gli artisti si pongono nella ricerca della propria identità e del proprio sound, che risultano oltretutto sempre insoluti. Perché la verità è che quando leggiamo “cantautore”, ancora l’immaginario è quello di una chitarra e di un artista che canta, possibilmente senza microfono, seduto da qualche parte. Tra citazioni di Boris e Moravia, io, Niccolò e Jacopo ci siamo chiesti cosa farci con queste due sfere apparentemente inconciliabili fra loro e come evidenziare da una parte che anche il pop ha un doppio fondo e dall’altra che il cantautorato può avere una superficie decisamente “cool”.
Siamo arrivati a diverse conclusioni, tra cui l’ovvio mai troppo “pop” (nella misura in cui “pop” è uguale a “banale”), cioè che dobbiamo non smettere di lavorare molto a questo dialogo, affinché questi due mondi possano andare d’accordo e possano scambiarsi a vicenda dei punti di vista, delle ricchezze differenziali, senza soffrire il peso del passato: da una parte il pop può impreziosirsi di significato, rilanciando se stesso, non accontentandosi del fatto che la sua immediatezza debba necessariamente stare al servizio di contenuti troppo leggeri e coincidere con loro; dall’altra il cantautorato può prendere in prestito dalla semplicità della canzone, una ricchezza piuttosto che un ostacolo, una forma fruibile di comunicazione con il pubblico. Perché se non c’è quella, l’arte perde un po’ il senso della sua esistenza. Allora è il mood che direziona, il suono viene in aiuto a queste due forme di comunicazione creativa che a volte si lasciano, poi si ritrovano e fanno l’amore; è l’elettronica che gestisce questo impasto di profondità e leggerezza, superficie e spessore, forma e contenuto. Sono i connotati di un’idea di “hyperpop” in cui l’angelica forma popolare si lascia nostalgicamente cadere nelle braccia di una non ancora ben definita ipertradizionalità che, trasfigurandosi nell’altro da sé, il sintetico del suono elettronico, riafferma in qualche modo se stessa.
Nella tradizione cantautorale molti sono stati coloro che in questa impresa sono riusciti nel loro tempo a impreziosire il pop e a dare quel tanto agognato significato altro al “cantautorato”. Molti di loro sono d’ispirazione alla Scapigliatura, i fratelli Jacopo e Niccolò Bodini. Lo scorso 26 novembre è uscito il loro album “Coolturale”, un disco audace e “raffinato” che nella semplicità delle linee melodiche della forma canzone ritrova il senso del coraggio di fare musica, di fare pop oltrepassando la staccionata bianca, dando una forma fruibile alle indagini umane e sociali. Ne abbiamo parlato insieme.
Ciao ragazzi, come state?
Bene, molto bene grazie. Abbiamo presentato in anteprima a Milano il nostro nuovo album, poi è uscito il disco, quindi in questo momento abbiamo addosso tutta una serie di emozioni e di sensazioni.
Duo elettro-cantautorale meneghino di fratelli che implodono in un’ecletticità di scene, linguaggi e infuenze. Quali sono i vostri punti fermi nella musica?
Niccolò | Sicuramente tutto il cantautorato italiano e non, i classici italiani, Guccini, Jannacci, Gaber, De andrè , Dalla, Battiato, De Gregori, sono una componente indispensabile. Poi sicuramente abbiamo come riferimento delle pietre miliari dell’elettronica cantautorale, come gli Air, o anche i più contemporanei come Bon Iver, o i The National.
Dalla vostra musica emerge un’”insostenibile leggerezza”, nel senso che in realtà risulta anche molto concettuale e pregna di punti di vista sulla realtà, ma avete trovato la chiave per esprimerli in una canzone pop. Da cosa nasce questa proficua intersezione?
Jacopo | Mi ritrovo molto in questa descrizione. Uno dei nostri punti fermi sono le canzoni, che rimangono ordinate, chiuse, classiche in un certo senso, all’interno delle quali abbiamo messo tutta una serie di cose. Ciò che conta è che si possano cogliere tutti i livelli della stratificazione che noi vogliamo fare, quindi ci piace fare qualcosa che possa essere fruibile a vari livelli, non necessariamente in contemporanea. È vero, noi facciamo riflessioni sul nostro tempo, sul nostro modo di vivere, più che altro, mettiamo dentro tante letture, tanti riferimenti, tante cose però poi è giusto anche che possano essere fruibili attraverso quella forma semplice che è la canzone, quindi noi giochiamo su questa ambivalenza e ci piace cercare di mantenerla fino in fondo. A volte risulta un problema poiché dall’esterno risultiamo non essere né carne né pesce, non siamo quella cosa dichiaratamente cantautorale, troppo seria, ma non siamo neanche invece il pop più scanzonato. A noi piace giocare su questi due piani.
Niccolò | A noi piace molto lo strumento della citazione, fare un esplicito richiamo a qualcosa, ma in un modo particolare. Non è che “Gli indifferenti” parla dei protagonisti de “Gli indifferenti” di Moravia, però nel momento in cui ti dico “Gli indifferenti” suscito in te a più livelli un immaginario, e se hai dentro di te quello moraviano riesci a inquadrarlo. Sto cercando in qualche modo di trasmetterti un’ immagine che hai già, però ovviamente cerco di metterci un concetto mio dietro. tutto questo attraverso la suggestione creata dalla musica
Come sono nati i brani di questo disco? C’è stato un punto nevralgico da cui poi è partito tutto?
Niccolò | Nel primo disco uno ci mette tutto quello che di meglio ha, poi nel secondo disco uno cerca di creare un’identità, hai affinato il tiro, quindi cerchi di andare in una direzione più precisa. Noi abbiamo fatto un sacco di concerti dopo il primo disco, ma o andavamo in una direzione “iper-acustica” oppure cercavamo di seguire un po’ il disco con delle sequenze, però nulla non ci tornava ancora del tutto. Siamo stati molto affascinati dall’elettronica quindi abbiamo pensato di realizzare un disco partendo dall’elettronica, perché partendo dalla chitarra vieni ispirato e portato a scrivere un certo tipo di canzoni, per cui abbiamo deciso di provare a scrivere a partire da basi che ci piacciono e poi da lì costruire. La canzone che è stata un po’ il punto di svolta è stata “Ovvietà”, la prima ad essere stata scritta in ordine di tempo, la seconda è stata “L’insostenibile leggerezza” poi “Aria di partenza”, tutte comunque scritte tutte nell’arco di un anno e mezzo, fino alla fine del 2019.
Jacopo | È un disco che è partito più dall’aspetto musicale: abbiamo cercato di inserire le linee melodiche e i testi a partire dai mood che si erano creati da un punto di vista armonico, ed è questa la caratteristica generale del disco.
«Tornerà un modo sensato di prendere fiato / E cantare solo i The National / Ad onor del vero / La guerra di Piero / L’han scritta di già». Cos’è la musica italiana oggi?
Jacopo | È una questione molto legata all’industria musicale, gli artisti cercano di compiacerla. Purtroppo l’industria musicale nell’ultimo periodo in Italia è un po’ troppo autocompiaciuta. Citando Boris: «Ma che cos’è la locura? È la peggior tradizione rivisitata con un po’ di follia». Mi sembra che la ricerca sia un po’ a ribasso e non a rilancio, tuttavia ci sono anche molte cose interessanti per fortuna. Per fortuna che ci sono ancora persone che hanno il coraggio di osare. Tante cose del passato sono state già fatte, è importante confrontarsi con esse ma anche non farsi schiacciare dal confronto, non guardare sempre indietro, ma avere un occhio indietro anche davanti. Non farsi schiacciare dalla tradizione che in un Paese storicista come l’Italia ha un peso rilevante: il nostro Paese riconosce nel passato momenti di grande splendore, ma dal punto di vista storico vive una decadenza che è dura praticamente dall’Impero Romano con qualche momento di “rinascimento”.
Niccolò | Come diceva Gaber: «Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono».