di Riccardo De Stefano
Il sorprendente album d’esordio (solista) di Francesco Motta ha realizzato quel piccolo miracolo della musica italiana: un lavoro di alto livello artistico e creativo capace di essere apprezzato tanto dal pubblico quanto dalla critica. Vuoi per le questioni generazionali (La fine dei vent’anni è un tema topico importante), vuoi la grande capacità di Motta di sintetizzare e rendere emblema la propria intimità. Lo scoglio del secondo album solleva l’annosa questione: confermare il successo? Ripetere la formula? Esporsi di più? Vivere o morire è al tempo stesso un notevole passo avanti nel suono, così come un viaggio dentro la sfera intima e privata di un artista che – con grande coraggio– ha saputo imprimere su carta (e nastro) i turbamenti di un periodo complesso, con un unico solo obiettivo: essere felice.
La fine dei vent’anni è stato un trionfo. Potevi aspettarti una simile reazione?
Non avevo aspettative ma ero convinto di quello che avevo fatto. Da allora ad adesso sono cambiate tante cose nella mia vita e sono sicuramente più felice ora. Non solo non lo nascondo, ma sono fiero di essere cambiato e di non essere lo stesso di due anni fa, né lo stesso dei vent’anni.
Cosa è cambiato?
Sono più consapevole: scelgo di più il mio tempo, scelgo di più le mie persone. Ho sempre una costante voglia di cambiare idea sulle cose nonostante sia molto difficile farmela cambiare.
Il tuo primo album, sentendolo dal vivo, l’ho visto crescere col tempo. Sono “cresciute” le canzoni, suonandole?
È stato anche merito dei musicisti che suonavano con me, oltre il fare tante date ed essere padrone delle proprie canzoni. All’inizio forse non lo ero neanche io, padrone delle mie canzoni, ci sono arrivato con cento concerti in un anno. Poi ho sentito l’esigenza di fermarmi perché era giusto e sano fermarsi e guardare quello che è successo.
In Vivere o morire si sente la strada.
Ho viaggiato tanto, ma non ho scritto cose quando ero fuori, ho scritto quando sono tornato. C’è tanto estero ma anche tanto cuore e fegato, e forse sono riuscito a capire meglio tante cose anche perché quest’anno ho viaggiato di più.
Il disco vede la partecipazione di Sinigallia, oltre che di Pacifico, ma la produzione è diversa: hai un ruolo più centrale, affiancato da Taketo Gohara. Come è stato affrontare il distacco da Sinigallia?
Ha capito quanto ci vuole per sopportarmi, quanto ha fatto Taketo per sopportarmi e quanto io stesso ho fatto per sopportarmi. Non è stato facile ma mi son sentito pronto: prima non avrei potuto farlo, anche grazie a quello che ho imparato con Sinigallia: mi ha detto che la produzione del secondo disco sarebbe stata che… non mi avrebbe prodotto il secondo disco! Questo è stato fondamentale.
Uno degli argomenti portanti del disco è quello della musica, basti pensare a La nostra ultima canzone. Hai trovato quelle note giuste che cercavi? Dov’erano?
Le ho trovate, erano nei cassetti. C’è quel verso che nessuno ha capito in Del tempo che passa la felicità, che pensavano dicesse “casse di vuoti, milioni di versi”, in realtà era “dentro cassetti vuoti, milioni di versi”, ma ho apprezzato il gesto: spesso ci sono interpretazioni che sono meglio di quello che puoi scrivere tu. Quando ho fatto il video di Del tempo… c’era mio padre che doveva parlare in playback che mi diceva questa frase qui potevi dirla diversamente, così gli ho detto “babbo, vabbè che ti faccio fa il video ma non è che devi prende il posto mio”. Lui è il Mick Jagger della famiglia.
A proposito di babbo, Vivere o morire è un disco che attraversa tantissimi ambienti: familiari, relazionali, musicali. Mi sembra che sia cambiato il modo di raccontarli, e quindi di viverli, questi ambienti.
Sì, è cambiato anche il modo di percepirli: la differenza che c’è nel vedere i propri genitori come inavvicinabili, o di vederli come un uomo e una donna nella loro umanità, fatta di pregi e difetti. Anche per questioni di età non riuscivo a trovare le parole giuste. Mi è toccato mettere il cuore sul tavolo anche parlandoci di alcune cose che sono poi finite dentro le canzoni. Dire “babbo” in Mi parli di te non è stato assolutamente facile.
Mio padre era comunista aveva la voglia di raccontare qualcosa, ma sembrava visto dall’esterno.
Con un sano e nostalgico distacco nel vedere la mia famiglia che sta in un’altra città. Quando parlo dei miei genitori sul disco lo faccio in un altro modo.
Ti confesso che ogni volta che sento Mi parli di te mi metto a piangere.
E pure io. È una cosa che succede a tante persone, è successo mentre la scrivevo, mentre la riascoltavo e mentre la riascoltavo con mio padre. Che è stato anche più difficile che scriverla.
Quel “siamo ancora in tempo” è davvero struggente. Quanto è difficile dire una cosa del genere in musica? È più facile perché il messaggio viene mediato dalla canzone oppure è ancora più difficile perché ti espone?
Entrambe le cose. Da una parte il fatto di poterlo scrivere da soli in casa, ti permette di non avere compromessi. Poi mettere in una canzone fatti così personali non è sicuramente facile. Per me ci deve essere un gancio emotivo vero, in tutte le mie canzoni parlo di quello che sento vicino. Era l’unico modo per me per farlo, per emozionarmi ascoltando le canzoni. Nel mio caso il trucco è non avere trucchi, che è difficile.
Vivere o morire, esiste questa domanda realmente?
Si capisce da che parte sto. Spesso in questo periodo storico, nell’amore, nelle scelte, nella politica, si tende a non prendere posizione, si tende anche a non trasformare l’errore, a non accettarlo. Il compromesso può essere bello però è bello prendere posizione, in tutte le cose: nella scelta del tempo che impieghi, nella scelta delle persone. Me la sono posta questa domanda: ho visto il mio passato come una conquista dettata da scelte binarie, da sì e no, esserci e non esserci. Questa trasformazione è frutto di errori che ho fatto, che ho accettato e trasformato, in qualche modo.
Nella canzone parli anche di lasciarsi andare, che può essere in entrambi i versi.
Vero, ma è un prendere posizione, un buttarsi. A volte serve farlo, fa paura lasciarsi andare.
Il disco inizia come un riflesso del tuo primo lavoro. Quella felicità che era percepita sta diventando reale. Volevi collegare i dischi?
In qualche modo sì. Questa ricerca della felicità è più lucida e consapevole. Se prendi i due titoli si capisce che ho fatto un percorso nella mia vita per essere più contento, a trovare note più giuste, ma anche mettere un minuto di musica come scelta di racconto: penso che il testo sia la cosa più importante nelle canzoni e in un certo senso in quel minuto di musica c’è un testo, io decido di non cantare, quindi c’è un racconto, che è fondamentale. È assurdo poi come ascoltando il disco l’ultima canzone, Mi parli di te, è praticamente opposta alla fine, ma è stata una sintesi conquistata.
Ed è quasi come essere felice come primo singolo è una scelta coraggiosa.
È stata una scelta politica. Poteva sembrare una scelta scomoda, perché non era un singolo, ma era il pezzo giusto di passaggio tra quello che ero stato e quello che ho conquistato.
Anche il video è diviso in due.
Come la canzone. È stato bellissimo come con Silvia Calderoni ci siamo trovati subito dalla prima volta che stava qua e le ho fatto sentire il pezzo: mi serviva un racconto opposto tra la prima parte della canzone e la seconda. La prima è psichedelica, racconta i posti dove sono stato a registrare il disco, e quando realmente parte il disco c’è quel piano sequenza, di grande impatto. Siamo uguali, ma opposti, siamo diventati fratelli.
Ho letto che ricercare la felicità significa che, di fatto, non sei felice però.
No, la felicità sta nella ricerca della felicità. Quel titolo lo puoi leggere in due modi: c’è chi si sofferma sul quasi e io invece mi soffermo sul felice, quindi decidi tu da che parte stare, io la mia l’ho detta.
Mi sembra un disco più posato, rispetto a La fine dei vent’anni, forse perché coincide con un momento di transito, in cui si avverte in effetti una frenesia.
C’era una confusione ordinata e una aggressività che mi è capitato di provare, scrivendo canzoni per questo disco, brani che non sono poi entrati, perché sentivo l’urgenza del riposo, di raccontare un riposo che mi sono guadagnato: non sentivo l’urgenza di fare pezzi aggressivi come Roma stasera, è sempre importante per me far sì che le mie canzoni invecchino insieme a me. Non sentivo quell’urgenza e non l’ho messa perché sarebbe stato in più.
E oggi come rivivresti le canzoni de La fine dei vent’anni?
Non posso viverle nello stesso modo. Lo dico in Quello che siamo diventati: cambiano i versi delle canzoni. È giusto che cambino, quando canterò La fine dei vent’anni tra vent’anni per fortuna sarà sempre diverso. Mi sono citato due volte non lo faccio mai!
C’è bisogno di cristallizzare il momento?
Sì, per raccontarlo. Poi uno fa sì che la sintesi di quelle parole diventi per sempre. Fotografare il momento intimo è un modo per ricordarselo e trasformarlo negli anni.
In La nostra ultima canzone dici “non ho mai capito da dove cominciare”, mentre canti “e se non so da dove cominciare, tu non chiedermi come andrà a finire” in La prima volta. Cosa lega questo continuo incominciare?
Nelle due canzoni si parla di una fine di un amore e di un innamoramento, è molto diversa la faccenda! Non ci avevo fatto caso, ma alla fine dico esattamente il contrario. Spesso nell’inizio dei nuovi rapporti si sente una stanchezza latente dovuta alla fine di un rapporto precedente, non è stato il mio caso sinceramente.
Questa prima volta come si può vivere attraverso la musica? È un esporsi, ma non c’è il rischio di darsi in pasto alle persone?
A volte può essere scomoda questa sincerità. Con una canzone in particolare mi sono castrato e ho fatto un passo indietro rispetto al testo, cambiando alcune cose perché non volevo raccontarle in maniera così definita, ma per me l’unico modo per fare canzoni è emozionarmi dicendo la verità. Può essere scomodo per alcuni e bellissimo per altri.
Sei preoccupato di poter essere oggetto di gossip? Come vivi questo momento di esposizione?
No. Metto molta più vita privata nelle canzoni che su Instagram, quindi di che dovrei avere paura? Ho raccontato tutto di me nei due dischi che ho fatto, chi vuole trova lì la mia verità, non sui social, tantomeno sulle riviste di gossip. Non mi fa né caldo né freddo.
È sempre un metterci la faccia. Come nella copertina, di nuovo, solo con più colori stavolta.
Rientra nel discorso dell’invecchiare, non come una cosa negativa, ma bellissima. Ho voluto mettere ancora una volta la mia faccia per vedere cosa è cambiato: sono più contento, anche se non sembra a vederla!
Invece del nostro format creato con fotografie analogiche scattate con
l’usa-e-getta a flash dall’artista stesso, questo mese le foto sono scattate in digitale dal cellulare di Carolina Crescentini