Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Stefano Bruno, cantautore di Milano che ha appena pubblicato il suo primo album dal titolo Per le strade del cielo, una dichiarazione d’amore per un passato da ascoltatore assiduo dei grandi del cantautorato italiano e i classici rock come i Led Zeppelin. Le canzoni da cameretta di Stefano Bruno hanno finalmente preso forma. Ecco cosa ci ha raccontato a riguardo!
Ciao Stefano, leggiamo nella tua biografia che ti sei avvicinato anche al genere gospel, cosa che ascoltando il tuo disco di debutto non ci aspetteremmo. Ci racconti un po’ com’è andata?
Quando si dice “gospel” si pensa subito a Sister act, all’aspetto visivo e scenografico riducendo tutto a uno spettacolo e si tralascia in realtà l’anima, l’aspetto spirituale e religioso e il contesto storico-sociale da cui tutto scaturisce. È vero che nel mio disco non ci sono tracce di gospel, ma se ascoltate noterete comunque l’importanza delle linee vocali e dei cori, aspetto che mi ha sempre incuriosito e affascinato. Mi sono sempre divertito a modificare lead voice di canzoni famose, a seguire e valorizzare voci meno evidenti e più nascoste e a crearne di nuove, quando proprio mancavano.
Tornando invece alla mia esperienza con il gospel, si può dire che sia nato quasi per caso. Più che nel caso credo nei segnali. Era un periodo in cui faticavo a trovare occasioni per suonare dal vivo. Sentivo un bisogno di cambiamento e avevo voglia di mettermi in gioco con esperienze nuove e diverse per non rimanere fermo.
Il segnale è stato un annuncio su internet in cui cercavano dei coristi per un coro gospel e così ho conosciuto i Soul Voices, cogliendo l’occasione per esplorare territori nuovi, lavorando sui cori e su altri aspetti della voce, ma anche sulle emozioni, su di me e perché no, sui miei conflitti interiori e l’ordine precostituito dell’istituzione Chiesa. Non ho avuto alcuna difficoltà ad ambientarmi grazie a delle persone fantastiche, sentendomi parte di una famiglia. Esperienza stupenda soprattutto dal punto di vista spirituale ed umano.
Nessuno ha il diritto di sentirsi più bravo o di urlare di più prevalendo sugli altri. Si impara a stare insieme imparando a riconoscere la propria voce in mezzo a quelle degli altri. Si impara a distinguere ogni singola voce in mezzo a tutte le altre. Si impara che la tua voce da sola non vale niente senza l’ascolto e la guida di tutte le altre. Prima pensavo che dappertutto le messe fossero riti noiosi dove i preti facessero lunghi monologhi e di tanto in tanto i fedeli si limitavano a rispondere a comando e a memoria senza neanche capire il senso di quello che dicevano. Che noia mortale poi stare seduti e composti durante tutta la messa.
Grazie al gospel ho avuto la fortuna di cantare in posti diversi vivendo e riscoprendo le chiese come luoghi di incontro e non solo di culto e di soggezione. Non era più solo un coro che cantava ma tutta la chiesa che si scatenava, saltava, ballava e faceva festa.
Fare musica in Italia, in fondo, è quasi sempre una partita persa, eppure ogni anno continuano a uscire sempre più dischi indipendenti. Come mai secondo te? Che esigenza ti ha portato a scrivere Per le strade del cielo?
Hai detto bene. Perché fare musica a un certo livello e di un certo livello costa e ci sono troppi parassiti che vogliono tutta la torta guadagnando sulle spalle e sul lavoro di noi musicisti. Perché ok i tutorial, ma la strumentazione e la formazione servono, ma soprattutto hanno un costo considerevole. E soprattutto non basta fare canzoni e un disco se esce nel silenzio e nessuno lo sa. La parte più difficile è quella della promozione e promuovere la propria musica costa… Così un artista nonostante abbia un progetto valido rischia di affondare già prima ancora di partire.
Se la situazione già non era buona prima, il Covid è stato il pretesto per darci una mazzata. Non è mica un segreto. Sono anni che in Italia la cultura non gode di buona salute e ce ne accorgiamo guardandoci intorno sia per quanto riguarda la situazione sociale sia per quanto riguarda la crisi di valori, il clima di odio, xenofobia e razzismo. Non è solo la musica a soffrire ma qualunque ambito artistico, dal cinema alla letteratura.
Fare il politico è un lavoro. La cartomante è un lavoro. Il tronista e l’influencer sono lavori. Persino la escort, il gigolò e rubare sono lavori ormai. Ma fare musica no. Guai! Non è riconosciuto se sei solo un artista di strada oppure, se non vieni da un talent show, se sei non hai un produttore o un’etichetta alle spalle, o se non sei artista già affermato. È naturale allora che escano sempre più lavori indipendenti. Perchè se non crediamo almeno noi in quello che facciamo, nessuno ci ascolterà mai. Perché la rete offre almeno uno spiraglio per tenere viva la speranza che qualcuno ti ascolti, si accorga di quello che fai.
Le case discografiche sono troppo impegnate a cercare tormentoni o qualcosa di virale, in cerca di brani già scritti per cantanti che hanno già una fama o interpreti già affermati, che magari non hanno mai scritto niente, neanche una lista della spesa. Le esigenze che mi hanno portato a scrivere questo disco nascono da dentro e da fuori. Nascono da inquietudine, silenzi, dal tema dell’incomunicabilità, ma anche dalla voglia di vivere, di raccontare e di dire la mia.
Cosa dovremmo assolutamente sapere del disco prima di ascoltarlo?
È un disco intimo e allo stesso tempo sfacciatamente pop dove si mescolano sonorità rock, darkwave, cantautorato e musica etnica. Non ci troverete brani reggaeton. Gli artisti che mi hanno influenzato sono tanti e diversi. È un disco dalle atmosfere retrò di facile ascolto anche se alcuni dettagli, i suoni e i testi possono essere apprezzati meglio in cuffia. Le canzoni hanno una vita e una storia propria, ma sono nate dalla stessa penna e dalla stessa inquietudine.
Usciamo da un periodo complicato di quarantena, dove effettivamente gli artisti si sono operati per portare online nuovi contenuti (come per esempio le varie dirette live, ad opera anche di alcuni artisti importanti come Nick Cave). Hai visto qualcosa di interessante? Tu hai fatto qualcosa a riguardo durante il lockdown?
Se devo essere sincero no. Un po’ per mancanza di tempo, un po’ per protesta di questa moda del balcone e un po’ per paura che la musica in un futuro imminente possa davvero diventare qualcosa di ancora più astratto, virtuale e remoto senza dei live con un pubblico di persone vere. Ho fatto solo una breve diretta una sera in cui ho suonato un mio brano cambiando alcune parole.
Poi più nulla. È stato veramente un periodo buio, che ho fatto fatica a riconoscere ed accettare. Lavorando in un supermercato ero obbligato a lavorare nella paura senza la possibilità di fermarmi, né di svagarmi, di andare al cinema, di vedere una ragazza o di bere una birra con gli amici. E quando arrivavo a casa ero così stanco e amareggiato che avevo solo voglia di chiudermi in silenzio nella mia stanza e capire, sempre con un delay e sempre in differita, cosa stava succedendo.
In questo periodo è come se una parte di me fosse morta per sempre. Perciò non ho avuto modo di vedere qualcosa di interessante. Ed è anche per ritrovare curiosità e per riscattarmi che ho insistito per la pubblicazione di questo primo disco. Si chiude un cerchio e una fase della mia vita in cui niente potrà essere più uguale a prima.
È vero quello che si dice, cioè che la quarantena non ha avuto niente da insegnarci?
L’essere umano dimentica in fretta e così molto spesso parla a sproposito. Viviamo
in un mondo arido ma nello stesso tempo freddo di emozioni e di sentimenti, dove le emozioni di compassione e di disprezzo sono guidate da finti slogan, un tweet o dalle masse. Probabilmente chi parla così non ha perso niente o ha vissuto da sempre in una reggia. Ha visto la quarantena come opportunità per fare i propri porci comodi e andarsene nella terza casa al mare. Ma chiedetelo a chi ha perso un lavoro, una persona cara o l’opportunità di darsi un appuntamento per una birra al bar, di frequentarsi con un partner, di vedere la propria famiglia o nel caso di un’infermiera o di una cassiera continuare a lavorare senza dignità e in modo disumano come se niente fosse.
Già nessuno si ricorda più lo slogan “ANDRA’ TUTTO BENE” ? Basta andare al mare per dimenticarsi degli altri e dei problemi. E che non funziona niente, ma va tutto a puttane…
E adesso? Prossimi passi per Stefano Bruno?
Adesso mi godo questo traguardo. Vedremo se ci saranno le condizioni per continuare a resistere e continuare a fare tutto questo. Intanto, la cosa che più mi riempie di gioia e di orgoglio è che adesso finalmente, oltre alle parole esiste qualcosa che è fuori e che è disponibile a tutti. Chi vorrà potrà sentire le mie canzoni.
Dopo questo arresto forzato sembrerà ancora più strano ed emozionante calcare un palco, che sia con tutta la band o in contesti più intimi e in acustico.
Sicuramente sarà stimolante e divertente cercare di camuffare i brani con arrangiamenti nuovi. Poi mi piacerebbe suonare su palchi nuovi e in città diverse. Ho già iniziato a lavorare su nuove canzoni. Mi piacerebbe infine collaborare con altri artisti e scrivere per altre voci, magari una voce femminile.