– di Riccardo De Stefano –
“Parla, la gente purtroppo parla / Non sa di che cosa parla / Tu portami dove sto a galla/ Che qui mi manca l’aria”, canta a un certo punto Damiano David dei Måneskin, nel loro fortunato brano “Zitti e buoni”, vincitore di Sanremo 2021. E quel rancore – forse posticcio, forse reale – con cui lo strilla, posso condividere con grande facilità.
Perché poche cose sono irritanti come gli hater dei Måneskin. Intendiamoci, intuisco i motivi per cui il quartetto romano può dare ai nervi: arroganti, giovani, belli, appariscenti e vincenti, rappresentano la perfetta risposta mainstream ai turbamenti disagiati di indie e la stucchevole retorica viziosa della trap.
Il problema è che le critiche alla band sono semplicemente fesserie ipocrite. Rock non rock, costruiti o spontanei, copioni o originali, nuovi o vecchi. “La gente purtroppo parla” e fa sempre troppo poco. Basterebbe semplicemente ascoltare la musica e ricordarsi che non c’è per forza bisogno di commentare tutto.
I Måneskin creano discussione solo perché sono vincenti e appariscenti, non certo per le loro qualità o i loro difetti. Chiaro che l’estetica del ventenne bello e dannato, in lotta col mondo che non lo capisce, chino sulla chitarra col distorsore a manetta, è tutto fuorché attuale. Vorrei però conoscere una persona che riesca a dirmi dove si trova oggi quel “futuro” che sembra essere così tanto agognato dagli ascoltatori e critici italiani: il pop degli ultimi anni ancora saccheggia dai tardi anni ’70 e ’80, la trap e derivati, per quanto molto attuali, sembrano invecchiati come i cani – ogni anno ne vale sette.
Paragonare il presente ai grandi nomi del passato, d’altronde, è un gioco facile che si può fare con tutti e ci porta al vicolo cieco di dover confrontare epoche e contesti diversi con la sfocata lente dell’attualità.
Allora sentiamo Teatro d’ira – Vol. I dei Måneskin con il giusto orecchio. Scordiamoci di X Factor, mettiamo da parte Sanremo, lasciamo cioè la televisione dove deve stare: sul mobile, nell’altra stanza, possibilmente spenta, come un monolite sdraiato a ricordarci che va bene tutto, ma la musica è un’altra cosa.
No, sentiamo il disco con lo spirito critico di qualcuno che ascolta dei ventenni fare musica rock, in Italia, nel 2021. Perché, di sicuro, di rock si tratta e chi lo nega dice molto più di se stesso che della band. Il rock, infatti, è tutto fuorché una cosa sacra: è un genere che ha stilemi, approcci e strutture specifiche, e i Måneskin lo sanno e lo fanno bene.
Bene, ma non benissimo, certo. Teatro d’Ira – Vol. I è infatti un buon disco rock, dove si vede che i ragazzi hanno passato tempo ascoltando e assorbendo i classici del genere. Il formato power trio svolge bene il compito, con Thomas Raggi – apparentemente il motore musicale della band – ben capace di esplorare il manico della chitarra e tirare giù i riff giusti. Meno dirompenti, ma efficaci, anche Victoria De Angelis al basso e Ethan Torchio alla batteria, dediti a sostenere il sound, con qualche spunto melodico o ritmico di buon gusto.
Teatro d’Ira non è un disco che ricorderemo tra vent’anni – quando loro ne avranno quaranta – ma è il disco adatto in un momento del genere, perché paradossalmente, per corsi e ricorsi storici, la musica fa il giro completo e il rock torna a essere alternativo, pur essendo oggi più che mai (e il rock dei Måneskin lo dimostra) un acquired taste per grandi e piccini.
Libro di storia (della musica) alla mano, si può individuare questo o quel riferimento preciso, già a partire dai titoli (“For your Love” ci richiama con facilità gli Yardbirds e “La paura del buio” non può che portarci alla mente il mentore Manuel Agnelli e i suoi Afterhours) e a voler fare le pulci alla band, il peso di Jimmy Page e degli Zeppelin emerge come tributo in “Il nome del padre”, il cui riff iniziale deve più di qualcosa a “Moby Dick”.
Ecco, la prima critica che si può fare, è una certa pigrizia sonora: tutti i brani si muovono sul solco di un hard rock in minore, intenso e sopra le righe, anche capace di giocare con le dinamiche, ma fin troppo compatto, scivolando qui e là in ambienti sonori e atmosfere fin troppo simili.
Ma, seppure forse la band si avvicina qui e là agli Arctic Monkeys e persino ai Rage Against the Machine, Teatro d’Ira è un disco comunque molto personale. Il merito, forse, è di Damiano David, vera carta vincente del progetto, frontman fatto e finito già in età adolescenziale, capace di incarnare l’ideale estetico della rockstar maledetta come tutti i biopic musicali ci hanno insegnato in questi anni.
Damiano – autore dei testi – sembra trovarsi a proprio agio nel ruolo del cinico ventenne che “si è fatto da solo”, contro tutto e tutti, ereditando quell’estetica in your face di un certo rap e convertendola in rabbia post-adolescenziale dal piglio rock. Così “Zitti e buoni” si conferma un buon brano d’impatto e così, per i limiti elencati poco sopra, orbitano sulla stessa falsariga anche “Lividi sui gomiti” e “In nome del Padre”, vagamente esasperata nella sua vocazione coprolalica.
Forse per velleità internazionali, forse per nostalgia degli esordi, due brani sono in inglese: il debole e superfluo “I Wanna Be Your Slave” e il piacevole e già citato “For your Love”.
Decisamente più interessante, comunque, “Coraline”, musicalmente più ricercata, con la sua struttura ciclica e un bel crescendo emozionale, dove per l’unica volta Damiano canta di qualcun altro diverso da sé, tratteggiando un personaggio femminile efficace a cui lascia la scena principale regalando alcuni versi – certamente di maniera, ma – vincenti.
Il brano migliore rimane “Vent’anni” primo singolo e proto-inno generazionale per la band, dove Damiano canta sicuramente di sé nella speranza di essere universale (risultato presumibilmente riuscito, a giudicare dall’impatto del brano). “Vent’anni”, tra i suoi pregi, ha quello di avere il ritornello migliore dell’album, con una piacevole svisata melodica, che dopo tanti strilli, chiude il disco con un certo malcelato struggimento esistenziale, che ben riassume il Måneskin-pensiero: avere vent’anni e vivere quello che si può vivere al massimo, prendendo quello che si può prendere, a muso duro, in direzione ostinata e contraria.
E forse tutto il disco è “Teatro”, finzione su un palco che non vuole simulare la vita vera, ma rappresentazione di un mondo estetizzato e irreale. Forse, in altre parole, i Måneskin giocano a fare gli arrabbiati, i diversi, gli incompresi, mentre invece oggi più che mai questo tipo di rock è digerito e assimilato dalla massa. Una sorta di grande truffa del rock and roll, di ventenni che di cose per cui lamentarsi ne hanno poche, degli impostori che fingono di fare rock per speculare ai danni dei giovani Zennials in crisi d’identità.
No, Damiano non è Pierangelo Bertoli, né De André. Ma lui e i suoi compagni di band ci fanno vedere il volto più appassionato della musica mainstream attuale, quella che comunque dimostra un amore e un attaccamento alla musica suonata, a una strana e incerta alchimia da band che supera il valore dei singoli componenti. Nessuno dei Måneskin è, di certo, un virtuoso, ma ognuno ha una propria precisa personalità, anche musicale, che lo rende il giusto tassello di un progetto che funziona benissimo così com’è, una sorta di pop band con il gain a manetta e l’atteggiamento irriverente adatto a farcela stare antipatica. Quindi decisamente molto rock.