Il nuovo disco di Coez, “Faccio un casino”, è difficile da definire. C’è il rap e c’è la canzone pop. C’è anche, soprattutto, la collaborazione con Niccolò Contessa de I Cani, tra le band culto del cosiddetto “indie”. Li abbiamo chiamati entrambi per parlare di questo lavoro, e per scoprire se esiste il punto di contatto tra “rap” e “indie”.
Coez e Niccolò Contessa e I Cani. Una “strana coppia”? Come è avvenuto l’incontro, vi conoscevate da prima?
C: No, “strana coppia” neanche troppo. Siamo tutti e due di Roma e siamo coetanei. Non facciamo lo stesso identico genere, ma non mi sembra così strano. Sicuramente stimo più io lui che lui me! Ci siamo conosciuti anni fa, quando avevo firmato con Carosello Records e cercavo un produttore, che poi è diventato Sinigallia. Tra gli altri ho contattato anche Niccolò: ero andato a un paio di concerti suoi (lui ai miei non è mai venuto!), poi alla fine ci siamo visti più volte. Un anno fa stavo iniziando il nuovo progetto e volevo fare un pezzo con lui, ci siamo beccati a casa sua e abbiamo realizzato questo pezzo che, possiamo dirlo, non è niente di che! Lui aveva buttato giù l’idea di “Faccio un casino” la notte dopo: c’eravamo trovati bene umanamente, io avevo lanciato l’amo dicendo che volevo lavorare con lui. Quando ha buttato giù gli accordi di “Faccio un casino” ha pensato che doveva essere una roba mia e lì abbiamo iniziato a lavorare a più brani.
NC: in apertura mentale Silvano mi batte e ha capito prima lui che avevamo qualcosa da dirci, e anche se non suona nessuno strumento ha una visione musicale libera.
C: Quando l’ho contattato volevo solo trasportare il featuring del rap nella canzone. Non pensavo a lui come “produttore”.
Ti sei proposto come Niccolò Contessa piuttosto che come I Cani. È per dare spazio al progetto di Coez e ridurti a un ruolo tecnico, oppure perché I Cani sono un progetto diverso?
NC: Io vorrei iniziare a scindere le cose: I Cani è il gruppo, le mie canzoni che faccio nel buio della mia cameretta da solo. Poi ci sono gli altri progetti a nome mio, come la colonna sonora de “La felicità è un sistema complesso”.
Autorialmente c’è stato uno scambio vero, o un lavoro di produzione e suoni?
NC: Su “Faccio un casino” avevo una idea melodica del pezzo.
C: Il testo è mio, ma quando scrivevo lui era presente, così come lo ero io quando scriveva lui. Mi ha dato un grande supporto quando mi bloccavo su qualche punto del testo. È la prima volta che scrivo in presenza di qualcuno che ha una bella esperienza di scrittura, accelera il processo.
NC: Vorrei anche io ad avere una persona che ti dà indicazioni, perché uno tende spesso ad autocensurarsi. È stata davvero una scrittura d’insieme, che è una cosa rara, perché quando si parla di co-autori, si parla di persone che non stanno neanche nella stessa stanza, non si sono neanche conosciute.
Come sono nate le altre canzoni che avete scritto insieme?
C: Per “Delusa da me” ci avevamo lavorato, ma non l’avevamo preso in considerazione come altri brani, nettamente più forti. Niccolò era a Milano a vedere i Pop X, così si aggiunse Sine, la terza persona in collaborazione nel progetto. Dopo, a casa mia, Sine sente il disco, dice “ti mancano ‘ste cose”, butta giù due loop e così è nata la veste sonora di “Delusa da me”. “La musica non c’è” è nato il primo giorno con Sine: avevamo affittato lo studio per raggruppare i pezzi e dargli una pasta comune, Alfonso [vero nome di Sine ndr] stava poco bene e ho detto a Niccolò di vederci da lui e dopo poche ore il pezzo era finito, da mix. È stato l’ultimo pezzo del disco quindi, sbem!
NC: Poi ci sono stati dei giorni in cui non è uscito un cazzo, non siamo riusciti a quagliare. C’è anche la frustrazione del giorno in cui non esce un cazzo che però ti dà qualche cosa che poi ti fa lavorare bene.
Quanto ha preso questo processo di scrittura?
C: Ci siamo beccati per scrivere circa otto volte a distanza di mesi. Entrambi eravamo in tour e quando ci trovavamo a Roma sfruttavamo le occasioni.
NC: Questo per scrivere. Poi c’è stata la produzione di tutto il disco con Sine, che quello avrà preso altri venti giorni.
C: In totale una trentina di giorni per raggruppare tutto il materiale, poi lavorato in un botto di studi diversi. Dai credits sembra il disco di Kanye West.
Sei un artista trasversale e ti sei trovato ad avere un linguaggio che non è riconducibile a una formula specifica. Questo ti ha alienato determinati giri? Sopratutto collaborando con artisti avulsi da quel mondo?
C: Mi ha allontanato dal cuore della scena del rap e non sarò mai un artista indie, sfuggo alle denominazioni. Però allo stesso tempo il vero trasversale è quello che prende un po’ tutti. Il fatto che magari non incarno il genere preciso per ora potrebbe sembrare un qualcosa in meno, però magari tra qualche anno potrebbe essere un “di più”. Penso che ci vuole solo più tempo per uscire fuori.
Che ne pensate dell’esplosione della trap, come Dark Polo Gang o Carl Brave x Franco 126?
NC: Carl Brave x Franco 126 sono sotto Bomba Dischi, che sono amici miei e mi piacciono per partito preso, anche se non li ho ascoltati! No, in realtà li ho ascoltati, ma non ho capito, forse c’è un gap generazionale. Per la Dark Polo Gang, sto cercando come esercizio spirituale di non aver nessuna opinione, sto cercando di contare quanti giorni passano prima che qualcuno mi chieda cosa ne penso… e sto a zero!
C: Capisco bene il suo discorso, credo che la trap stia per sfuggire, per fortuna, al nostro target di età. È giusto che sia così, come quando ero io ragazzino e rappavo e non pretendevo che magari raccontando storie queste venissero comprese dai trentenni.
Quindi si può fare rap una volta che si è cresciuti?
C: I pezzi rap che stanno nel disco sono onesti per un trentatreenne, forse ci sono un paio di uscite goliardiche, ma è rap anche quello. Se nei dischi vecchi c’erano le canzoni con i dissing mo’ c’è il pezzo su mi’ madre. Anche il rap può evolvere: ho allargato il pubblico a gente che non ascolta solo il rap e penso che questi brani possano piacere. C’è poco di pensato a tavolino, soprattutto rispetto agli altri dischi: è nato in maniera spontanea, poi è logico che mentre fai il disco, anche se non vuoi, un disegno si crea, ma lo capisci anche dopo.
Il mondo dell’indie e quello dell’hip hop si basano su due concetti opposti: il “disagio” del primo e l’“attitudine” del secondo.
NC: quando sei più giovane sei convinto che quello è il modo per spaccare, ti dà forza. Io non ho ascoltato rap da ragazzino, poco, e quando sei per strada ti senti che ti sta dando forza. Quando cresci capisci che le batoste della vita arrivano. Sono due aspetti della vita complementari, tutti quanti hanno dentro quei due aspetti. È come un “piccolo disturbo bipolare”.
Dove si trova il punto tangente ai due?
C: Non volevo essere un ponte come è stato detto tra l’indie e il rap. Sì, ho lavorato con Niccolò che è un pilastro del genere, ma non c’era una voglia di fare un “pezzo indie”. La sua mano è molto riconoscibile: non è una ricerca, ma una conseguenza, perché è lui. Io nel disco ho messo le mie due anime, poi ai posteri l’ardua sentenza.
NC: la prima volta che ci siamo visti, io cercavo di fare il rapper e lui cercava di fare l’indie. Poi quando ho capito cosa piaceva a lui è andato tutto bene, che non è né indie né rap, ma era un’altra cosa.
È solo una questione di moda e di passaggi storici?
C: Stanno solo chiamando “indie” una nuova scuola di canzone. Nel rap ci sono degli stilemi olto più forti: ci sono molti sound che seguono la moda americana, mentre quello chiamato “indie” è meno catalogabile, chiamata così per non dire “pop”. Per me il rap è cassa, rullante, un campione figo e un MC che spacca a fa’ le rime. Quella roba là non passerà mai veramente, perché è diventato un classico. Se prendo questa nuova ondata di trap, hanno tutti le basi di Charlie Charles, e se ai nuovi artisti che escono gli dai lo stesso produttore stai creando qualcosa di troppo catalogabile.
NC: Sul seguire le mode americane, anche nell’indie succedono. Ritorna un certo sound, un certo approccio. È difficilmente catalogabile come suono. La trap italiana è il genere più etichettabile possibile, senti certe cose ed è quello.
Nell’indie penso a Cantaluppi che ha un forte impatto su un certo tipo di sonorità.
C: E i Thegiornalisti si sono mai definiti un progetto “indie”? No, ovviamente. È una classificazione troppo stretta.
NC: È un gruppo che fa ha fatto “Amici”, fanno i palazzetti. Il disco di Calcutta, per dire, è uscito sotto etichetta Sony.
C: Allora io sono indie perché sono indipendente. Se mi ci mettono per quello, allora ci sta.
Come è stato tornare ad essere indipendente? È anche un modo per avere un controllo totale?
C: Ci ho messo cinque anni a costruire un team di persone che potessero lavorare con me, e se in Carosello avevo otto persone interne, ora siamo in quattro su tutto. Però ben oliate in anni e anni, ognuna che ha il proprio ruolo. Succede che l’investitore sono io, proprietario quasi al 100% del mio progetto. È tutto molto più semplice e veloce: con Carosello l’ultimo disco uscì su Spotify dopo sei mesi e fu un grosso problema, mentre adesso “Faccio un casino” sta oltre tre milioni di ascolti. Numeri importanti.
A proposito del singolo, come è nato il video di “Faccio un casino”? Mi sembra che tu faccia esattamente il contrario, mettendo a posto casa!
C: In quei giorni stavo da Niccolò a lavorare alla canzone, e mentre stavo scrivendo “ho casa nuova di sistemare”, mi chiamarono per dirmi che avevo realmente preso la casa. Da qui l’idea, il ricominciare: mi trasferisco a Milano, sistemo tutto, invito a cena gli amici poi a fine video mi pettino ed esco. È il primo video che dà il La al tutto, son tutti linkati tra loro ma si capirà dopo. È un casino ordinato alla fine. Lo stesso disco è un caos ordinato: far coesistere le anime e gli stili diversi, dal “mi scopo la tipa” al pezzo su mia madre.
Il disco si apre con “still fenomeno”. Come mai il bisogno di riaffermarlo, dopo tanto tempo?
C: Per dirti, avevo detto su Facebook di aver fatto disco più bello dell’anno, e una fan mi disse che avrei dovuto imparare da Niccolò a non fare così il coatto. Invece le ho risposto che lui aveva capito l’approccio meglio di lei e si era divertito. C’è questa autocelebrazione nel rap, che se lo fai in una maniera tua non dà fastidio veramente. Poi capisco che per un esterno può sembrare spocchia: sì, un po’ di spocchia c’è, ma è anche un modo per autocaricarsi. Veniamo dal nulla e quando ti prendi qualcosa lo sbandieri. Quindi te lo dico pure, “still fenomeno”, ci sta e nessuno ci deve rimanere male. E se ci rimani male anche sticazzi. Non è che uno deve per forza mettere d’accordo tutti.
Non temete di sbilanciarvi, e che questo possa influenzare i giovani ascoltatori?
C: Da ragazzino, per dirti, feci questo singolo dove insultavo Mondo Marcio che rappava “con un cazzo in bocca”, per come parlava; poi mi son pentito, l’ho conosciuto ed è una persona incredibile. C’è il ruolo del “cattivo”, che mi è stato presto stretto, ed è stato uno dei motivi per cui ho voluto allontanarmi, perché poi sei incazzato davvero. Da una parte quelli che dicono “quel disco era stupendo” ti fanno piacere perché quel disco lo hai fatto tu, ma se all’epoca non stavi bene, sei pure contento di non aver più quell’approccio alla vita.
NC: Io ho il problema contrario, mi son controllato troppo. Anche se nel mio primo disco ho detto cose come “Saviano è terribile”, che un conto è scriverla e sentirsela in cameretta, poi quando vedi gente che la canta al concerto, magari la prende troppo sul serio. Ma tu tiri fuori cose che hai dentro.
C: Che poi dire “Saviano è terribile”, specie nel momento in cui l’hai scritta, è molto peggio di me che insulto Mondo Marcio! L’attitudine rap alla fine è sempre sul filo del “sto dicendo una cazzata”.
Quindi non c’è una “responsabilità” quando si scrivono canzoni.
NC: Tutti i miei idoli o sono eroinomani o sono morti suicidi, eppure sono abbastanza equilibrato nella vita! L’unica responsabilità è nel non fare musica brutta: se vuoi fare una cosa solo per svoltarci, perché è figo, allora sbagli, ma come col ragazzino anche col sessantenne.
C: Quello che traspare dalle canzoni è molto meglio di quello che sono davvero, anzi, mi sembra di dare un buon esempio! Ho dedicato un brano a mia madre, che il più delle volte pensa che sono uno stronzo. Non traspare una mia brutta immagine dalle canzoni, quindi non mi preoccupo.
C’è la vergogna del pop in italia?
C: C’è, eccome! Se dici che Coez è “pop”, è come Nek, la Pausini. Però magari anche i Blur son pop. Bisognerebbe essere più sfrontati e dire “sì, fanculo, faccio pop”, a prescindere da quello che farò. Etichettatemi come artista pop!
C’è anche la vergogna del successo?
C: Noi non viviamo la musica con morbidezza. A me prende il 98% della mia vita, l’altro due percento cerco di scopare! Ma vedo che c’è tanto rancore sulle scelte che uno fa, quando in realtà le persone cercano solo di fare il meglio e non andrebbero neanche troppo lapidati per questo. La musica aiuta talmente tanto le persone, più di quanto ci rendiamo conto, che alla fine quando cambi una formula, e qualcuno non sente più quell’aiuto, quell’ancora di salvezza, tu artista vieni flagellato. È anche vero che non può dipendere tutto da noi.
NC: Questa cosa mi ha impegnato molto la testa nei primi tempi. Qualsiasi cosa che ho fatto fin dall’inizio sono stato aggredito. Il primo disco quando è uscito in anteprima streaming su Rockit, il primo commento era “B E L L A C A C A T A” [lo scandisce esattamente così, tra le risate di tutti. Ndr] e questo è stato il primo commento sulla mia musica! Poi succede di tutto, anche minacce di morte… la gente non prende tranquillamente la musica. Però non sono la massa, né la maggioranza, è difficile che davvero ti vengano a cercare a casa.
C: Io due calcetti per strada li ho presi! Non proprio per le canzoni però…
È meglio essere pop, popolari o populisti?
NC: Io ho sempre fatto il contrario di quello che ci si aspettava da me, e non voglio essere né pop, né popolare né populista, cerco solo di essere me stesso e già non è facile. Magari son populista e non me ne rendo conto. Ogni tanto ci penso e magari in futuro farò qualcosa come… La Macarena! Non lo so, non mi precludo nessuna strada.
C: Leverei subito il populista, rischi di essere Fedez! “Popolari” dipende, né a me né a lui fa impazzire l’idea di essere “popolari” al punto da non poter uscire di casa, è una cosa che spaventa. “Pop”, se lo intendiamo in una maniera neutra… ma in realtà dovrebbe includere le altre due, devi essere anche populista e popolare… non c’è via di uscita! Sceglierei tra i tre mali l’esser popolare!
Riccardo De Stefano