– Assunta Urbano –
Irene Montesi, in arte IRuna, è una cantautrice romana-costaricouruguaiana, avvicinatasi alla musica in tenera età. Il suo nome d’arte deriva dalla lingua quechua e significa “umano”.
L’artista si fa notare dal pubblico grazie alla voce delicata e alla penna sarcastica. Il suo piccolo mondo colorato, influenzato dalle origini, sfocia nel cantautorato pop nostrano.
Il debutto discografico è avvenuto con l’EP “Bacche di Goji” nel 2017.
Nel periodo in lockdown del 2020, lavora su “Come tutti – Quarantine Session”, ma non smette mai di scrivere. Proprio per farci raccontare il nuovo progetto, l’album d’esordio ufficiale, abbiamo chiacchierato direttamente con IRuna.
“Blue” è il disco d’esordio di IRuna, uscito venerdì 3 dicembre. Raccontaci di questo lavoro e catapultaci nel tuo universo.
È stato un lavoro intenso, travagliato, ma molto di “pancia”. “Blue” nasce dalla volontà di catturare momenti e stati d’animo precisi, che a loro volta inglobano delle dichiarazioni di autodeterminazione. È stato tutto casuale, ma ripensandoci è così. Ogni brano parla di cose precise e puntuali ed esprime un po’ il mio punto di vista sulla realtà. Sicuramente ho degli occhiali colorati, a seconda delle giornate.
Il blu è spesso utilizzato come colore malinconico, nostalgico e più genericamente triste. Il tuo album, però, non è infelice. Anzi, le fragilità di cui si parla vengono celebrate, tanto da diventare un punto di forza. Perché hai scelto questa tinta come inizio del tuo percorso discografico?
Ho scelto il blu perché mi piace molto come colore. Mi piace molto il pezzo nel disco che gli dà il titolo, per me è paradossalmente il più ironico, lo trovo un’ottima sintesi di queste cose, ovvero prendersi dolcemente gioco delle proprie fragilità per farne un punto di forza. Io lo associo al blu acceso del crepuscolo, non a quello buio della notte. Quella fase intermedia in cui si ferma il tran tran quotidiano per dare spazio a quello che sentiamo e pensiamo veramente. Poi, con la musica mi sono sempre caricata dietro una lieve malinconia, ma è stata quella che spesso mi ha portata a sedermi da sola a scrivere. Quando a Tenco chiedevano perché scrivesse solo cose tristi lui rispondeva: «perché quando sono felice esco».
Tra gli immaginari in cui ci ritroviamo durante l’ascolto, c’è “Selva”, probabilmente il brano più interessante e complesso degli otto. Prima di tutto, come si mescolano la natura e la tua musica?
L’universo naturale è quello che veramente mi ispira di più e mi dà più pace, forse anche per le mie origini centro americane, che mi hanno permesso di stare a contatto con un tipo di natura molto vergine e potente. Non per partito preso o attivismo, ma l’interesse ambientale ha sempre fatto parte di questa mia propensione. Ho studiato sviluppo sostenibile e mi sono sempre chiesta quale sia il nostro ruolo come parte di un macro organismo naturale e come possiamo, nel limite del possibile, farne parte limitando i danni. Non credo sia un impegno prettamente politico, ma sicuramente quello di “selva” è un immaginario che mi rappresenta molto.
È una canzone cruda, in cui prendi con coraggio il tuo posto nel mondo. Cosa significa, secondo te, nel panorama musicale attuale, rifiutare le imposizioni e proseguire per la propria strada?
È estremamente difficile. Molto spesso economicamente impossibile. Non credo che le imposizioni di un mercato così chiuso come quello italiano siano date dalla domanda, credo che sia l’offerta ad appiattirla. C’è poca diversificazione fra i generi e poco coraggio discografico. Nessuno vorrebbe fare l’eroe della musica indipendente. Anzi, sarebbe bello avere degli spazi dove esprimersi in maniera naturale facendo musica di diverso tipo e target, come succede in molti altri paesi europei.
«È una battuta, sei donna e non puoi capirla». Con ironia, affronti un problema molto importante. Pensi che le artiste femminili abbiano lo spazio che meritano in Italia?
Molte se lo stanno guadagnando con i denti e con le unghie e questo mi rende felice. Penso che ci siano sempre più artiste donne e alcune molto valide. Allo stesso tempo credo che lo spazio sia sempre inferiore rispetto a quello a disposizione per la media degli artisti maschili. Così come la rappresentazione di femminilità e dei temi trattati spesso è sempre la stessa. Quindi, c’è poco spazio per essere “diversamente” artiste femminili.
Nell’intro de “Il Palombaro” reciti «è troppo rischioso mostrare se stessi». IRuna corre questo rischio e si racconta in otto pezzi. È difficile portare sul palco la propria identità e cantare la propria vita?
Direi proprio di sì! Sono una persona fondamentalmente tranquilla. Anche se non posso definirmi timida, questi pezzi nascono sicuramente da momenti di raccoglimento molto intimi. Alla normale preoccupazione di fare una buona performance musicale, di questi tempi, si aggiunge un’osservazione di quello che traspare a livello visivo, visuale ed estetico. È un labirinto abbastanza complicato, perché nessuno può vedersi da fuori, è quasi un quesito esistenziale! A questo punto, uno fa un bel respiro prima di salire sul palco e si presenta per quello che è.
Proprio parlando di palco, ieri, martedì 7 dicembre, hai presentato “Blue” dal vivo al Monk a Roma, in apertura a Laila Al Habash. Che aspettative avevi per questo live?
Volevo fare un bel concerto, divertirmi ed emozionarmi, ma non troppo. Volevo soprattutto far divertire chi era lì ad ascoltarmi. Sono stata in ottima compagnia, una band mista, così come la serata è stata il frutto del lavoro di molte donne brave e professionali: da Laila alla chiusura di Dj Plastica, compresa tutta la crew dell’organizzazione. È stata una bella serata!
Se dovessi descrivere IRuna in sole tre parole, quali useresti e per quale motivo?
Troppo difficile non rispondere: sole, cuore, amore. Scherzo! Direi: verità, intimità, inclusione. Il mio desiderio principale è quello che qualcuno possa affezionarsi alle canzoni che scrivo senza magari sapere neanche chi sono, per poi volerlo scoprire e venire ai concerti! Una bella sorpresa.
Crucemos los dedos