– di Veronica Proia.
Foto di Bianca Serena Truzzi –
Paolo Pitorri, romano di nascita e francese di adozione ci racconta il suo progetto musicale che orizzontalmente ha tagliato i confini dell’arte settorializzata. Un viaggio esplorativo nella multidisciplinarietà.
Come nasce il progetto Lamaglietta?
Il progetto è nato circa un anno fa, qui a Roma. Ero di ritorno dopo un anno vissuto in Francia tra Lille e Bordeaux e ho iniziato a dare ripetizioni. Finita la scuola, però, mi serviva un’alternativa per esercitarmi a non perdere la lingua, così ho iniziato a canticchiare alla chitarra la mattina appena sveglio (in francese chiaramente). Un giorno, pieno di intenzioni leggere, viene fuori qualcosa che mi sembrava carino, lo faccio sentire ad una amica in cerca di riscontro. Tra una cosa e l’altra mi ritrovo con Peppe in studio a registrare, ri-arrangiare e pre-produrre per i successivi mesi. Da due accordi chitarra e voce, abbiamo iniziato insieme a costruire delle canzoni più strutturate. Lamaglietta nasce come progetto solista e nel giro di poco invece si costruisce in forma solida grazie ad una band che suona con me e ormai ne è parte integrante.
Al di là dell’intenzione iniziale, come mai hai mantenuto questa scelta di cantare in francese?
Deriva più che altro da un fattore di libertà espressiva, nel senso che oltre alla poesia insita nella lingua, mi sentivo di poter dire qualsiasi cosa in questo modo. Ho una esperienza parallela in un gruppo con cui canto in italiano ed è veramente pesante, sento la pressione di dover comunicare in un certo modo, dire cose interessanti, si finisce per prendersi troppo sul serio. Cantare in francese mi ha ridato quella tranquillità e quella forma diretta con cui comunicare uno stato d’animo, un pensiero o semplicemente un accaduto anche se apparentemente banale.
Le atmosfere delle tue canzoni sembrano le tue fotografie che prendono vita… quale è il confine tra sogno e realtà in questo immaginario? (specifichiamo che Paolo coltiva la passione della fotografia analogica a cui si dedica da anni).
Si è vero, le mie canzoni le vedo proprio come piccole fotografie di vita vissuta che riesco a descrivere. Poco dopo la pubblicazione in molti hanno iniziato a commentarmi il singolo definendolo dreamy e sinceramente non era un effetto pensato, avendo una visione più complessa del disco me lo immaginavo magari genericamente pop. Però effettivamente neanche io vedo più questo confine tra sogno e realtà quindi mi è sembrata una bella percezione questa. Avvalorata inoltre dal fatto che gli altri componenti della band ascoltano tantissimo post-rock, influenze dai Sigur Rós agli Explosions in the sky, quindi sicuramente c’è un ritorno ricercato a queste sonorità fatte di riverberi, delay e distensioni. Poi penso si siano create le dinamiche giuste di essenzialità anche tra noi componenti, nessuno prova a strafare, entra una linea, fa il suo corso e poi se ne va, sono le virgole a fare la differenza alla fine.
Quali sono invece le tue di contaminazioni musicali?
Ovviamente in questo periodo ho ascoltato tantissima musica francese. La trap va per la maggiore da quelle parti lo ammetto, però se dovessi pensare ad un gruppo di riferimento direi gli Odezenne: mi piacciono i loro testi pieni di riferimenti, il modo in cui curano la parte visual, insomma ammiro la loro profondità artistica. Non posso non citare Elliott Smith, punto fermo nei miei ascolti, gli devo molto indipendentemente dal fattore “influenze”.
Parliamo del video di Violette, di nuovo ci troviamo davanti alle tue fotografie che prendono vita, mi è sembrato carico di simbolismo.
Per il video mi sono affidato ad Astrid Ardenti che mi ha aiutato a riportare questo concetto di analogico, è stato girato in vhs e sicuramente si nota la fissa di lei per la Nouvelle vague.
La parte concettuale più forte è quella legata proprio al fatto che è girato in bianco e nero, mentre il titolo è un colore. In assenza di colore si dipinge questo cielo viola, si riferisce proprio a quello poi violette, mentre le persone la cantano pensando si riferisca ad una donna, ma comunque va bene, alla fine si può anche personificare.
C’è un filo conduttore che lega i brani? Ad esempio in un momento parli di “un affare di solitudine” e poi di quando “finalmente decidi di uscire”.
Il disco nasce in completa solitudine. Sono partito per la Francia alla ricerca di quelle atmosfere piovose e grigie, quelle stesse che poi hanno iniziato a farmi sentire costretto dentro delle mura. Tornare a Roma mi ha fatto ricordare i raggi del sole, me li ero dimenticati.