di Riccardo De Stefano.
Gio Evan, che personaggio. Non si capisce bene se sia un musicista, un attore, uno scrittore, un filosofo. Probabilmente è tutte queste cose, o forse un’altra cosa ancora che le racchiude tutte (o nessuna) e che ancora non ha un nome. Con la sua enorme zazzera di capelli ricci, che sembra avere vita propria, lo incontriamo al Light Stage di Alternativa Eventi allo Sziget 2018, incurante del solleone, forse anche per merito della sua abbacinante maglia gialla.
Dopo lo show – ovviamente ridimensionato per essere adatto al contesto internazionale – lo avviciniamo, incuriositi e quasi storditi dal fiume di parole con cui ci sommerge:
Come si sviluppa uno spettacolo come il tuo?
Nasce da un eccesso di domande. Non c’è un confronto, le faccio tra me e me durante l’anno, ma l’obiettivo non è rispondere quanto rinforzare la domanda stessa. Parlo di “domandabilità”, ci hanno sempre insegnato la potenza della responsabilità, fare le cose responsabilmente, che vuol dire anche la capacita di dare risposte ma nessuno ci ha insegnato il valore della domanda. A scuola costruiscono un’istruzione affinché tu possa essere responsabile, ma non si prendono a cuore delle domande che ci si fa nella vita. Io detesto quando mi chiedi di che segno sei, come se tu ti intenda di stelle, o quanti anni hai, come se fossi troppo giovane o troppo vecchio. Queste persone ho bisogno di distruggerle. Io vado a letto che ho 73 anni, mi sveglio che ne ho 12, cambio sempre, la mutazione, la metamorfosi è quella che mi interessa. Perché non ti chiede nessuno “quanti danni hai?” “quanto calzi d’idea?”, “cosa posso fare per la tua libertà?”, queste sarebbero fondamentali.
L’istruzione ci fa crescere in un certo modo, quindi forse sarebbe meglio la distruzione?
Bisogna sicuramente distruggere dei valori che sono pochi, cioè di poco valore. Nell’induismo è centrale la figura di Shiva, che distrugge tutto affinché Krishna possa ricostruire. Senza distruzione non ci può essere costruzione, bisogna riconoscere che quello che c’era prima non va più bene.
Quando costruisci un’esibizione, che sia canzone, performance, un recital o un libro, che linguaggio sviluppi? Perché ognuno di questi mezzi è un linguaggio diverso. Quale pensi che sia Gio Evan, lo scrittore, il perfomer?
Non esiste un Gio Evan diviso da tutto quello che faccio, cambiano i rami ma il frutto è lo stesso. Ho bisogno di essere tanti rami. La poesia, la musica, la performance, il quadro, è tutto diretto verso lo stesso frutto, cambia la postura. Non sono contraddittorio.
Che frutto è?
Non lo so, forse dovrebbe dirlo chi mi ascolta, io non mi mangio, sono qui per concentrarmi nel dare lo zucchero necessario in questo mondo. Le mie intenzioni sono rimanere tenero, rimanere delicato e fare giganti i dettagli.
Sei un artista a tutto tondo, ed “artista” è un termine molto abusato. In questo momento storico, parlando di responsabilità, manca secondo te la figura dell’artista che si fa carico della responsabilità? Tu non vuoi avere questa responsabilità nei confronti del tuo pubblico?
Non voglio essere un testimonial quotidiano. Non posso nemmeno esserlo, io vivo fuori dal mondo. Sono in questo mondo, ma non di questo mondo. Sto qui ma non sono qui, sono disorientato in questa vita, non alloggio in questo grande albergo. Sono un testimone: guardo, osservo, e quando mi chiederanno come va qui dirò che è un bel casino.
La tua cifra stilistica è il racconto, anzi, raccontare dettagli. Quando è che un dettaglio ti colpisce, che cosa ti ispira e quando ti arriva tanto da volerlo raccontare?
Mi arriva quando incontro gente sveglia. Mi faccio ispirare dalle persone che incontro. Per me i Carmelo Bene, i Gesù Cristo, i San Francesco, me li devo vivere quotidianamente. Mi piace leggere ma se non vivo nel qui e ora, nello zen, tra le persone attive, ad alta frequenza, non me ne faccio niente.
Quindi è una ricerca della meraviglia?
Che viene da mera-veglia, “chiaramente sveglio”, è la consapevolezza della tua vita, quando sei chiaramente sveglio. Così vedi la bellezza.
Si può incastrare questa bellezza nell’arte?
Certo, non c’è niente da incastrare, sta tutto dentro. Sta a te vederla o non vederla, la bellezza. Comunque sia abbiamo un format che vogliamo mantenere intatto, cioè la poesia, la tenerezza. Poi ti chiedono di suonare allo Sziget e ti chiedi come fai a portare un discorso meditativo sulla tenerezza qui, tra un MD e l’altro. Però un’altra parte mi dice, “fallo ovunque, sorprenditi”. Come il monaco Charles De Foucauld, che venne ucciso dal suo popolo perché gli altri non avevano capito la sua cristianità e rifiutavano le sue parole d’amore, così lui scrisse sull’agenda, l’ultimo giorno di vita: “loro continuano ad odiarmi e io continuo ad amarli”.
C’è quasi un senso di sacrifico in questo.
Sacrificare vuol dire “Edificare il sacro”, d’altronde.
E pensi che il tuo sia un sacrificio per il pubblico?
No, non sento un distacco tra me e il pubblico. Vivo la vita con il pensiero che ci siamo io e te in questo mondo, che visti dall’alto siamo la stessa persona.
Sulla croce ci saliresti?
Già ci sono nella croce.