– di Riccardo De Stefano.
foto di Giovanna Onofri –
Non si può certo dire che Galeffi sia fortunato. Quando qualche anno fa uscì il suo esordio, “Scudetto”, parte del pubblico e della critica lo accusò di essere uno dei tanti nuovi artisti indie usciti sulla scia, sorvolando sul disco che aveva piccoli capolavori come “Occhiaie”, ancora oggi validissimi. Arrivato il momento di dover confermare i buoni propositi, dopo la pubblicazione di singoli interessanti e dall’ampio spettro musicale come “Cercasi amore” e “America”, Galeffi pubblica il 20 marzo “Settebello”, suo secondo album per Maciste/Polydor/Universal, in piena emergenza coronavirus.
“Settebello” è un disco elegante, sinesteticamente vellutato, che mostra un enorme salto di qualità per Galeffi, che di essere ridotto a ennesimo cantante indie non ci vuole stare. In barba al coronavirus e a tutta le sfortune e le disgrazie del Mondo.
Quanto è difficile affrontare l’uscita di “Settebello” – il tuo secondo disco – in un momento storico che sta mettendo tutto in discussione?
Abbastanza. Negli ultimi giorni mi sono allenato a pensarla positivamente, se fosse stato un problema vero avremmo potuto posticipare come hanno fatto tutti, ma mi sembrava giusto far uscire il disco, visto che ormai sono 4 mesi circa da quando è uscito il primo singolo e, soprattutto per il circuito indie, non puoi far passare troppo tempo. Serve anche dare importanza al disco. Da un altro punto di vista così come me tanti altri ragazzi in questo momento di difficoltà hanno tirato fuori un po’ più di attenzione, come se tutti fossero più interessati all’ascolto e allo stare insieme e penso che possa far bene al disco: magari a casa potranno ascoltarlo veramente, perché non è un disco facile, ti mette nelle condizioni per poterlo apprezzare di doverlo ascoltare e non soltanto sentire.
In questo momento storico l’album come formato è messo in discussione, diventato quasi una raccolta di singoli. Sei ancora legato formato disco? Le 10 tracce si collegano l’una con l’altra?
Forse è un pregio, forse un difetto, ma non c’è una grande distanza fra i singoli e gli altri brani. Qualcuno potrebbe lamentarsi che le canzoni più belle non le ho fatte uscire come singoli, ma è un disco che trova la forza nella sua coerenza e si può apprezzare in tutte le sue sfumature, nelle contrapposizioni che spero di esser riuscito a creare a livello di generi e contaminazioni, che si colgono soltanto nell’ascolto del insieme, come i dischi di una volta. Infatti consiglio a tutti gli ascoltatori di comprarlo in vinile perché è un disco interamente suonato senza drum machine e cose varie, è un disco vecchio stampo e andrebbe ascoltato non solo con le cuffiette.
“Scudetto”, il tuo primo disco, aveva diviso il pubblico: chi ti adorava e chi ti considerava un altro dei nomi usciti in “coda” al successo di Calcutta.
Qualcuno mi ha anche sottovalutato e criticato per il primo disco, che è stato attaccato molto di più rispetto a tanti altri che sono stati più derivativi e paraculi di me. Con “Settebello” ho voluto dare un disco vedere quanto sono bravo a scrivere canzoni. Sono migliorato nell’armonia e nella composizione, ho dovuto studiare e recuperato il tempo che prima non ho avuto, mi sono fatto il mazzo e sono contento del risultato, nonostante la crisi coronavirus. Sono fiero di far sentire le mie canzoni.
Le influenze sono tante, Cercasi amore ha influenze Rock quasi Proto grunge, mentre America ci porta in ambienti più jazz. Il disco hai detto di averlo scritto in una casa Montesacro, cosa ti ha raccontato questo spazio è questo luogo?
Credo di averci messo tanti piccoli miei pensieri dentro questo disco. Ogni tanto ti si accende la luce e scrivi quello che ti capita, è l’angolazione da cui guardi le cose che cambia da artista ad artista, sicuramente è intriso di vita quotidiana. Certo, così sembra che sia un disco che parla solo di caffè e sigarette: si parla di questo, ma anche di tutte quelle cose che stanno dietro le quinte della vita quotidiana. Non so quanto il quartiere abbia influito nella mia scrittura, più che altro ha influito andare a vivere da solo. Ho scoperto una maggiore libertà, una maggiore solitudine: solo così hai più momenti per stare con te stesso e più libertà di ascoltare o suonare quello che vuoi senza chiedere il permesso a nessuno, Devi solo rispettare il tuo flusso di vita.
Quindi un vero “disco della maturità”? Non a caso lo hai definito un album “coraggioso”.
Io mi guardo intorno. Molti degli Artisti di oggi hanno un limite, che poi è quello per cui l’indie è criticato, l’essere sempre tutto uguale e monotono. Ovviamente con casi diversi per fortuna, per esempio Andrea Laszlo De Simone, spesso l’Indie viene accusato di essere monotono, come è monotona l’80% della discografia italiana. Credo di essere stato coraggioso nel proporre qualcosa di diverso e di essere uscito dalla mia comfort zone, di essermi messo in discussione, visto che nel disco c’è una seppur breve composizione classica, un pezzo jazz, un pezzo rock, c’è il cantautorato, c’è il Pop, ci sono canzoni contaminate di Blues e Soul, non mi sono risparmiato, poi il disco ti può piacere o meno ma mi sono sentito in obbligo di scriverlo come un disco coraggioso. Magari fallendo ma almeno ci ho provato, anche per capire dove andare nel futuro, questo disco è servito per darmi delle risposte e capire in quale genere rendo bene e in quale male. È una ricerca, la musica non può essere solo musica da falò.