_di Riccardo De Stefano_
Nel 1947, degli scienziati dell’Università di Chicago, autori del Bulletin of the Atomic Scientists, crearono l’Orologio dell’Apocalisse. No, non si tratta di qualche strano artefatto capace di portare l’Armageddon sulla Terra, bensì di una invenzione retorica per segnalare a che distanza da una Apocalisse atomica ci si trovasse: le lancette si avvicinavano o allontanavano idealmente alla mezzanotte a seconda del livello di minaccia globale. Lo scoccare del Nuovo Giorno avrebbe significato la fine dell’Umanità.
Ora, visto che mi piace rubare idee e adoro le esagerazioni romantiche e retoriche, direi che questo artificio narrativo ben si presta per descrivere l’attuale situazione della discografia italiana.
Partiamo da una riflessione: chiunque dica che “l’indie non esiste” semplicemente non ha idea di che cosa stia dicendo. Il mercato “indie” o indipendente è esistito e sempre esisterà, e benché non rappresenti un genere specifico qui da noi (ma un preciso stilema indie rock nelle produzioni anglofone c’è), nondimeno serva a raggruppare un intero mondo di produzioni discografiche “in opposizione” al mainstream e all’egemonia delle grandi case discografiche e dei principali network radiofonici (e televisivi).
i vecchi sconosciuti dell’indie sono passati da valere poche centinaia a diverse migliaia di euro a concerto
Sì, direi che se il cambio del Millennio aveva acceso le speranze per una Nuova Età dell’Oro, dove bastava avere un Myspace per “farcela”, l’ultimo lustro ha definitivamente spento le luci sulla possibilità del mercato musicale di preservare la sua natura “indipendente”, preferendo abbracciare tout court tutte le dinamiche, i meccanismi, le perversioni della vecchia e odiata discografia avida e oppressiva.
È durato poco, pochissimo, e in un lampo tutto è cambiato: i vecchi sconosciuti dell’indie sono passati dal valere poche centinaia di euro, per un concerto, ad alcune migliaia di euro fino a diverse decine di migliaia di euro. Pochi anni, cinque al più. Soldi su soldi su soldi e cachet alle stelle.
Diecimila, ventimila, forse anche trentamila euro per portare al tuo festival (grande o piccolo che sia) quei nomi che nel 2013 pochi in Italia conoscevano e oggi sono i Nuovi Profeti in Patria.
Non che ci sia niente di male nell’avere un mercato florido, capace di generare introiti: significa che c’è attenzione dall’alto e un pubblico curioso e disposto a spendere. Quello che spaventa è la velocità con cui questo accade: si può passare nel giro di due anni dall’anonimato, al primo disco fino al concerto nel palazzetto o nello stadio? Possono lievitare i prezzi dei biglietti del 700%?
Come si può immaginare un Calcutta che torna all’Atlantico di Roma?
Prima di tutto c’è stata la corsa a chi arrivava prima a realizzare l’evento più grande: il doppio sold out de I Cani al defunto Circolo degli Artisti di Roma rappresentava all’epoca qualcosa di inaudito, quel “ce l’hanno fatta” che prima di allora sembrava quasi impossibile da raggiungere. Poi sono esplosi i Thegiornalisti e Lo Stato Sociale coi loro Pala Lottomatica e Forum D’Assago, poi il colpo da Maestro di Calcutta: Stadio di Latina e Arena di Verona. Meno di cinque anni per centuplicare (vabbè, più o meno) il numero di spettatori. E come si torna indietro da qui?
Come si può immaginare un Calcutta che torna all’Atlantico di Roma (che con le sue tremila persone è stata per lungo tempo tappa irraggiungibile e poi punto intermedio per “provare il grande salto”)? Come possono i competitor abbassare il proprio cachet?
D’altronde lo vediamo nella narrazione che si fa di questi progetti: prima ci hanno stupito i Maneskin con il loro “This is Maneskin” al cinema, per raccontarci – come se ne sentissimo il bisogno – il making of del… loro primo album. Ora è il turno di Calcutta, che annuncia una tre giorni cinematografica per tutti quelli che all’Arena, a Verona, non ci sono potuti essere.
Manovre di un mercato impazzito, lanciato a tutta velocità contro un muro che tutti vedono e di cui nessuno si sta preoccupando. Perché se un Cremonini ci ha messo vent’anni per fare gli stadi, così come i Ligabue o Vasco Rossi hanno messo decenni per sbarcare al cinema è perché quei prodotti avevano bisogno di costruire un fondamento solido per il loro pubblico, sedimentare dentro il cuore del fan – dal più indefesso al novizio – diventare staple della musica italiana su cui investire senza rischio di uccidere il mercato, di farlo crollare, di gonfiarlo e farlo esplodere come una gigantesca bolla di sapone. Una bolla che cresce e cresce sempre più, preannunciando i contorni di una novella crisi di mercato che causerà danni incalcolabili ai più, salvando quei pochi che hanno la forza e il talento di diventare nuovi staples del mercato.
Se vuoi entrare in radio, devi essere con le persone giuste. Se vuoi andare in TV devi sempre stare in quel giro
Così, il grande colpo da maestro delle major è finalmente riuscito: circa vent’anni per fottere la rete, Napster e tutte le stronzate del peer2peer, prendersi prima gli spiccioli di Spotify e poi iniziare a vendere biglietti gonfiati per i fan di tutta Italia (per dire: un biglietto VIP per Achille Lauro costa 90€, intendiamoci). Di fatto uccidendo le velleità di tutti i nuovi artisti che ancora pensano di “potercela fare” perché “ormai tutti sulla rete possono sfondare”. Invece, quella fase mitica (chissà se mai davvero è esistita) è ormai finita e divorata dalle edizioni musicali in mano alle solite major (Sony, Universal, Warner + le sorelline tutte nostrane Sugar e Carosello) capaci tenere al guinzaglio le vecchie, morte etichette “indipendenti”, ridotte quasi di fatto a sussidiarie (ben felici ovviamente perché capaci di avere potere decisionale e copertura e supporto finanziario per investire nei nuovi nomi). Tutto il resto è tornato ad essere inutile e superfluo, uno stuolo infinito di nomignoli e strutture evanescenti che non riescono ad incidere in un mercato che, gira gira, è sempre in mano a quelli lì. Se vuoi entrare in radio, devi essere con le persone giuste, sennò te lo scordi il passaggio radiofonico. Se vuoi andare in TV devi sempre stare in quel giro, altrimenti puoi sempre suonare nel tuo live club di quartiere, e lì hai voglia a sponsorizzate Facebook o storie Instagram.
Questa attitudine da “prendi i soldi e scappa” delle furono etichette “indipendenti” è anche comprensibile, eppure paradossale: chissà quanto può durare questa fase redditizia e proficua di pubblico e soldi, per cui inflazioniamo il mercato al fine di fare quanti più soldi e portandolo al limite della sopportazione, sfiancandolo e condannandolo a morte prematura. Ricchi x sempre o forse no, vabbè fa niente.
Per cui, se volete entrare nella gabbia dorata dell’indie-mainstream, buttatevi oggi o tacete per sempre, frequentate le persone giuste nelle serate giuste, non litigate né criticate nessuno mai, sorridete a tutti e fate un botto di storie Instagram, fate quanti più backstage potete, mi raccomando non scordatevi i vostri synth con le patch anni ’80 e fate cantare tutto il pubblico. Prendete l’ufficio stampa giusto, create la vostra brand identity e pregate il vostro Dio di riferimento per entrare in quelle tre o quattro etichette giuste che vi apriranno la porta agli anticipi sulle royalties e al giro che conta.
Oppure sedetevi lungo la sponda del fiume e aspettate di vedere i cadaveri portati dalla corrente verso il mare. Manca poco.